Oggigiorno si conosce
il prezzo di tutto,
ma non si conosce
il valore di niente
– Oscar Wilde
Prima di 20.000 anni fa l'uomo era cacciatore e raccoglitore.
Poi è iniziata l'agricoltura e l'allevamento, una forma primitiva
di tecnologia. Infatti il carro, la zappa, l'aratro, il mulino sono
state le principali realizzazioni tecniche di questo periodo.
Con l'agricoltura l'uomo, invece di essere nomade e spostarsi
per raccogliere quello che nasce spontaneamente nel luogo dove ci
sono le condizioni affinché questo avvenga da sé, si è stabilito in
un posto e ha cercato lui stesso di creare le condizioni per far
nascere in quel posto tutto quello di cui aveva bisogno.
Questa sua idea si è spesso rivelata problematica e soggetta a
insuccessi. Già il solo fatto di indovinare il momento giusto per
la semina è difficile, mentre se le sementi si trovano già in
terra, la natura sa quando è meglio farle spuntare e ogni anno i
tempi sono diversi.
Inoltre è spesso difficile immaginare quali possano essere le
conseguenze del lavoro umano che interferiscono con il corso della
natura.
Ad esempio, zappando la terra nel periodo invernale o autunnale,
si può accelerare la crescita di alcune piante, come ad es. le
fave, ma se poi arrivano i geloni, le piante più sviluppate di
solito non resistono, mentre quelle cresciute più lentamente
secondo natura subiscono meno danni ed hanno maggiori capacità di
ripresa e comunque accelerano la loro crescita durante la prima
primavera.
L'uomo, già con questa sua prima forma di tecnologia,
l'agricoltura, ha pensato di volersi sostituire alla natura ma, non
potendone avere una conoscenza completa, è rimasto spesso con
iscorno e beffato. Non è nemmeno detto che la natura sia
conoscibile. Potrebbe benissimo darsi che, come sosteneva il
filosofo giapponese Masanobu Fukuoka, essa sia inconoscibile;
difatti a tutt'oggi rimane ancora qualcosa di magico come lo era
per l'uomo primitivo.
Per quanto i nostri mezzi di indagine si stiano facendo sempre
più precisi per indagare il piccolo dell'atomo e il grande
dell'universo, non sembra che ci sia un traguardo che completi la
nostra conoscenza; anzi, man mano che la conoscenza scientifica
aumenta, si aggiungono domande su domande che diventano sempre più
raffinate e difficili.
Tornando all'agricoltura, l'uomo sperava di poter soddisfare con
essa più facilmente i suoi bisogni, ma in realtà il lavoro
necessario non diminuì. Con la formazione delle prime città i
problemi anzi aumentarono. Concentrare un elevato numero di persone
in uno spazio ristretto ha creato problemi ambientali, igienici, di
approvvigionamento, trasporti e sicurezza e non ha aumentato la
ricchezza e la felicità umana.
Per secoli il mondo è andato avanti così: schiavitù, servi della
gleba, colonialismo, imperialismo, sfruttamento del proletariato da
parte di una élite che accampava diritti di nobiltà e
intermediazione religiosa con Dio, e che in seguito è stata
sostituita dai ricchi capitalisti proprietari dei mezzi di
produzione industriale.
Sono queste brutte cose che hanno permesso solo a pochi uomini
di vivere nel lusso, mentre a tutti gli altri non è stata concessa
che una miserabile vita, spesso avulsa persino dal contatto con la
natura incontaminata e dalla sua gratuita generosità.
A distanza di non più di 3 secoli dall'inizio della rivoluzione
industriale, nonostante le apparenze, la situazione non è
sostanzialmente migliorata, anzi per certi versi è andata sempre
più peggiorando. La tecnologia ha continuato a fare progressi, dai
telai meccanici e dalle macchine a vapore si è passati ai cellulari
e ai computer, ma il lavoro dell'uomo non è diminuito.
Nonostante la tecnologia, abbiamo meno tempo libero di prima. Le
nostre necessità di base sono le stesse di 130.000 anni fa: il
cibo, un riparo contro le intemperie e vestiti per difendersi dal
freddo, ma non sono ancora garantite per tutti.
Oggi esiste un grande substrato di economia dei servizi e del
commercio, ma la base economica rimane sempre la produzione del
cibo e degli oggetti utili alla sopravvivenza, che sta diventando
sempre meno qualitativa e problematica.
L'inquinamento e la poca disponibilità di cibi freschi e
naturali ha minato la salute dell'uomo, diminuendo la sua
aspettativa di vita, nonostante la sua presunzione di poter capire
il funzionamento del corpo umano e curarlo con la medicina.
Ma in realtà il corpo dell'uomo è una complessa manifestazione
della natura ed è probabile che sia anch'esso inconoscibile come la
natura stessa.
La grossolana tecnologia medica dell'uomo difatti cura, e spesso
altrettanto grossolanamente, solo i sintomi o manifestazioni
esterne delle malattie e non ha idea delle cause interne.
L'ignoranza dell'uomo è tale che il suo intervento spesso
produce pericolosi squilibri: nel tentativo di curare o anche solo
prevenire una malattia, se ne possono causare altre ancora più
gravi.
Per soddisfare questi suoi bisogni di base, più altri spesso
inutili e insoddisfacenti, l'uomo di oggi è costretto a lavorare
anche più dei primitivi e spesso in condizioni peggiori: sotto
stress, in un ambiente inquinato e senza maggiore garanzia di
successo di quella che avevano i primi contadini.
Com'è stato possibile che l'avanzamento tecnologico non abbia
migliorato decisamente le condizioni generali di vita di tutti?
Da una parte perché la tecnologia è stata abusata e spesso usata
contro natura, senza chiedersi quali fossero le conseguenze e senza
nemmeno imparare dai propri errori. Questo ha certamente diminuito
il valore e l'effetto della tecnologia, ma non basta da solo a
spiegare il mancato benessere per tutti.
La risposta è ovvia: la diseguaglianza. Come dire, per ogni
100.000 poveri c'è un ricco. Ancora oggi c'è un ristretto numero di
persone che si è arricchito a dismisura, mentre la maggior parte
della gente lavora per loro.
Questo tipo di organizzazione sociale ed economica fortemente
antidemocratica è stata imposta dall'alto come la migliore
possibile. Si tratta della più grande truffa perpetrata ai danni
delle masse, ma le proteste sono state pochissime.
Il sistema economico capitalista ha un andamento ciclico
instabile e produce crisi periodiche. Nel mio paese, l'Italia, il
capitalismo non ha mai funzionato in un regime di vera legalità e
libera concorrenza. Piuttosto è degenerato in corruzione,
malapolitica e criminalità, con il risultato che le risorse
naturali, artistiche e intellettuali del paese sono state
rovinate.
Intere generazioni, formate da giovani e non, sono oggi ridotte
in povertà maggiore dei loro nonni e sono sempre di meno le
categorie di lavoratori che riescono a mantenere i loro diritti.
L'emigrazione giovanile ha privato il paese dei migliori cervelli,
consegnando al capitalismo estero risorse che spesso non sono state
adeguatamente apprezzate nemmeno nel Paese di arrivo. Eppure non
c'è stata alcuna protesta, nemmeno una flebile manifestazione di
dissenso.
Gli Stati dovrebbero porre un freno ai guadagni dei singoli,
introducendo sia un limite superiore sia uno inferiore di reddito
individuale. Ma piuttosto che occuparsi del benessere della gente
essi sono servi dei padroni capitalisti e nessuna misura di questo
genere è stata mai presa, in nessuno Stato del mondo.
Il capitalismo è stato lasciato libero di agire, con la vana
speranza di una sua auto-regolazione e automatico funzionamento, ma
questo capitalismo selvaggio si è rivelato essere il peggiore di
tutti i possibili sistemi economici.
Dopo tanti fallimenti, oggi l'unica via d'uscita per salvare la
terra dal degrado e dall'inquinamento, produrre stabilità, rendere
di nuovo la gente felice di vivere è il ritorno alla civiltà
contadina e agli antichi mestieri, ad una vita più semplice e vera
ed a contatto con la natura, dove la produzione non è fatta di
oggetti tutti uguali, ma al contrario tutti diversi, artistici e
personalizzati.
L'uomo deve riconoscere di aver sbagliato e deve fare un gran
passo indietro. Le città sono strapiene come formicai, care,
inquinate e piene di ladri, mentre le campagne o sono spopolate o
vengono straziate dalle imprese agricole, che producono
intensivamente quel cibo insipido e pieno di chimici per sfamare
più del 50% della popolazione che vive concentrata nelle città.
Però manca la volontà dei politici e anche quella del popolo per
attuare tutto questo. Se questo mio libro potrà aprire gli occhi
alla gente allora avrà avuto uno scopo. Purtroppo il riconoscimento
di un male è inutile se poi ci facciamo vincere dalla pigrizia e
non passiamo all'azione necessaria per combatterlo.
Il sosia
Racconto breve
Parigi. Champs–Élysées. Un caffé con i tavolini all’aperto in
una placida sera d’estate. Sullo sfondo svetta l’Arco di
Trionfo.
François è un pittore, che per vivere fa il ritrattista di
strada. Quando non ci sono clienti in posa, disegna volti,
conosciuti o immaginari, che mette in bella mostra per attirare i
clienti.
Una limousine nera si ferma davanti al caffé. Ne scende un uomo
di mezz’età in frac, dal volto tirato, seguito da due guardie del
corpo che si mantengono rispettosamente a distanza e scrutano i
dintorni. Con espressione triste e annoiata si siede ad un tavolino
all’aperto e ordina un caffé francese amaro e un croissant.
Si guarda attorno distrattamente, quando nota il pittore seduto
sulla strada lì vicino intento a disegnare. Uno scatto improvviso
quasi lo fa balzare in piedi, ma riesce a trattenere la reazione
fisica.
Quell’uomo gli somiglia paurosamente. Se non fosse per la giacca
logora e i pantaloni con le pezze, le scarpe dozzinali, il cappello
sgualcito, non lo potrebbero distinguere nemmeno le buonanime dei
suoi genitori.
Era come guardarsi allo specchio: i lineamenti del viso uguali.
La stessa fronte alta, la grossa attaccatura del naso, il viso
lungo, gli zigomi alti e carnosi. Come se non bastasse, i due
dovevano avere all’incirca anche la stessa età.
Philippe, questo era il nome del magnate finanziario, era
stupito da tante coincidenze. D’improvviso il pittore, che non
aveva affatto notato gli sguardi curiosi del suo sosia, si alzò ed
entrò nel bar.
Philippe bevve un altro sorso di caffé, ostentando tranquillità,
per nascondere la sua ansiosa irrequietezza agli occhi delle
guardie del corpo e, dopo pochi secondi, entrò anche lui
all’interno del caffé senza fretta, attento a non mostrare la sua
agitazione. Come di riflesso una delle sue guardie del corpo lo
seguì.
Philippe vide con la coda dell’occhio che il pittore stava
entrando nella toilette. Allora ebbe un’idea, per liberarsi della
guardia che altrimenti non l’avrebbe perso di vista un momento.
Entrò anche lui nel bagno. Così il gorilla si dovette fermare ad
aspettare fuori della porta.
«Come ti chiami?»
«François»
«Lo sai chi sono io?»
«No»
«Sono Philippe Reinisch, il più grande banchiere del
mondo».
Al pittore, abituato a fissare i minimi dettagli dei lineamenti
dei volti, sembrava guardarsi in uno specchio magico che, di colpo,
l’aveva trasformato in un gran signore. Se non fosse stato in preda
allo stupore per la somiglianza così perfetta, sarebbe arrossito
per non sapere di quale personaggio si trattava.
François non leggeva i giornali e non aveva nemmeno tempo di
guardare la televisione. A dire il vero, non ce l’aveva proprio la
televisione e non avrebbe potuto permettersela. Non c’era altro
nella sua vita che la pittura e la preoccupazione di tirare avanti
e di non riuscire ad arrivare alla fine del mese per pagare
l’affitto del suo squallido monolocale a Montmartre, il quartiere
degli artisti a Parigi.
«Ascoltami bene, non abbiamo tanto tempo. Si tratta di uno scherzo.
Scambiamoci gli abiti. Dammi tutto, anche i tuoi documenti; io ti
darò i miei».
E gli mostrò un portafoglio pieno di biglietti di grossa taglia
e varie carte di credito.
L’autorità dell’uomo e quel suo sguardo serio e razionale era
tale da incutere paura e François cominciò a spogliarsi come lui
gli aveva ordinato. Nel giro di pochi minuti lo scambio era
avvenuto.
Philippe gli aveva ordinato di uscire, pagare la consumazione e
lasciare una grossa mancia al cameriere, avviandosi poi verso la
limousine.
Gli aveva intimato di non rivelare a nessuno la sua vera
identità e lo scherzo che avevano congegnato. E di chiedere
all’autista di farsi riaccompagnare qui alla stessa ora dopo una
settimana, quando con lo stesso sistema avrebbero ripreso le loro
rispettive identità, promettendogli anche una forte somma di denaro
alla fine del gioco.
Lui, per non destare sospetti, sarebbe uscito dalla toilette
solo un paio di minuti dopo e avrebbe preso il suo posto di
ritrattista.
In qualunque situazione si fosse trovato, avrebbe dovuto
comportarsi in modo del tutto naturale. Eventuali dimenticanze,
stranezze e diversità sarebbero state attribuite alla natura
eccentrica di un ricco piuttosto che alla sua diversa identità,
potendo stare sicuro che nessuno avrebbe scoperto l’inganno.
«Un ultimo particolare ed è perfetto. Cerchi di
imitare la mia voce. Ci provi adesso».
«Sì così va bene, non importa quello che dice,
basta che usi sempre un tono autoritario. Qual’è l’indirizzo di
casa sua?» Philippe se lo segnò su un foglietto.
⁂
Tutto avvenne come previsto e François nei panni di Philippe non
destò alcun sospetto nelle sue robuste guardie del corpo e persino
il vecchio autista che lo serviva da sempre non notò alcun
cambiamento.
La macchina ripartì subito velocemente in direzione dell’arco di
Trionfo, proseguì lungo il Viale della Grande Armata e sostò presso
il Palazzo del Congresso.
Qui si teneva una riunione a porte chiuse di tutti i più grandi
banchieri del mondo. Il tema verteva sulla recente crisi economica
e le strategie per superarla senza che che né le banche, né i
politici che aiutavano a sostenerne gl'interessi ne subissero
danni.
La discussione si teneva ad interventi singoli. Chi voleva
parlare si prenotava di volta in volta premendo un bottone e
aspettando che venisse il suo turno. Solo quando uno aveva finito,
il prossimo in coda rispondeva o esprimeva le sue opinioni.
François, che non sapeva niente, tranne il fatto che da quando
si vociferava che c’era la crisi, la gente s’era fatta più
parsimoniosa e lui vendeva meno ritratti, ascoltò per un po’ le
dichiarazioni di molti altri banchieri, prima di decidersi a
prenotarsi per dire la sua, proprio in un momento caldo della
discussione, quando oramai s’era fatto un’idea di quali fossero gli
scopi e gl'interessi di questa gente, in base a quello che s’era
detto finora.
Fosse per divertimento, ma anche per sfida, era deciso in tutto
e per tutto a fare la parte di Philippe il grande banchiere.
Del resto gli era sempre piaciuto fare l’attore. Aveva sempre
pensato che l’arte è unica. Un artista è uno che imita la realtà a
modo suo. Così un pittore può dipingere una faccia che immagina e
un attore può plasmare sul suo volto la stessa espressione,
anch’essa frutto dell’immaginazione.
L’aria sorniona che François assunse quando disse queste parole
era esattamente quella che l’attore–pittore aveva in mente e
avrebbe potuto dipingere in tutti i particolari.
«Miei cari signori» disse.
«E’ chiaro che la crisi si supererà solo se la
gente è disposta a fare sacrifici. Ma affinché questo avvenga,
nessuno deve sospettare le vere cause della crisi».
«Pertanto bisogna che noi sfruttiamo ogni nostro
potere e influenza sui mass media e i politici affinché si parli
della crisi e si convinca la gente che noi stiamo lavorando per
risolverla».
«La gente deve credere che essa sia dovuta ad
oscillazioni del mercato. Quindi smettetela di lamentarvi e passate
all’azione, perdinci!»
Sbatté i pugni sul tavolo e si fermò un attimo. Nell’aula c’era
un silenzio totale, tutti lo guardavano con grande rispetto.
«I governi attueranno una politica di tagli e
diranno alla gente che le spese del sistema assistenziale di cui
hanno goduto finora non sono più sostenibili, ma che se si faranno
sacrifici, presto ci sarà una ripresa e si ritornerà agli stessi
livelli di benessere se non superiori».
«Noi utilizzeremo lo strumento della corruzione per
ripagarli di questa loro copertura, come abbiamo sempre fatto
finora per ottenere la loro collaborazione».
«Non siamo noi che dobbiamo preoccuparci della
crisi. La gente lavorerà di più, guadagnerà di meno e coprirà
l’ammanco senza nemmeno accorgersi delle cause. Del resto non
possono fare altro che lavorare. Il nostro scopo è appunto quello
di renderli schiavi inconsapevoli».
«Non ci possiamo assolutamente permettere che
possano riconoscerci come responsabili e che si crei un odio contro
di noi. Dobbiamo evitare a tutti i costi che si ribellino».
E concluse:
«Noi finanzieri dobbiamo apparire al senso comune
come uomini di successo self–made, dotati di importanti conoscenze
economiche, necessari per il buon funzionamento dell’economia e
soprattutto disinteressati».
«Noi dobbiamo essere visti come i curatori della
crisi, non come la causa. Vedrete che così i nostri capitali si
salveranno e noi manterremo sempre la posizione di potere e
privilegio di cui abbiamo goduto finora. Non ho altro da dire».
Il vero Philippe probabilmente non avrebbe parlato in modo così
esplicito dei loschi intenti della lobby delle finanze, per tema
che ci fossero dei microfoni nascosti o qualcuno lo potesse
tradire. A questo il più ingenuo François non aveva affatto
pensato, ma la sala era stata controllata palmo a palmo dal
personale della sicurezza e pertanto nessuno si era preoccupato più
di tanto che il capo non aveva usato il solito linguaggio in
codice.
Anzi, proprio il suo parlar chiaro e la sua aria di cattiveria
erano serviti ad aumentare l'entusiasmo e infondere fiducia anche
negli animi più incerti riguardo la riuscita della disonesta
operazione.
Tanto che appena ebbe finito di parlare, scoppiò addirittura un
applauso fragoroso. François ricevette tante di quelle strette di
mano ed espressioni di elogio, congratulazione ed approvazione da
parte di tutti i principali banchieri del mondo, che comunque non
erano altro che suoi fedeli sodali, che avrebbero applaudito a
qualunque cosa lui avrebbe detto o fatto. Ma dato che gli aveva
dato realmente speranza di salvarsi la pelle, stavolta gli applausi
erano addirittura sinceri.
Poi, attorniato da una cerchia di guardie del corpo, si avviò
verso l’uscita, dove l’attendeva la folla dei giornalisti che erano
venuti apposta per raccogliere le sue dichiarazioni. François
procedeva spedito, attraverso la folla dei reporter che premevano
frementi, chiedendo insistentemente che rilasciasse qualche
commento e indiscrezione.
A un certo punto si fermò e, attorniato dai microfoni,
disse:
«Stiamo lavorando, in collaborazione con le forze
politiche e gli industriali, per risolvere la crisi senza che ne
risultino danni al sistema economico».
«Siamo consapevoli che ci saranno da fare grossi
sacrifici per tutti, ma ormai siamo in ballo e bisogna ballare. Io
sono fermamente convinto che ogni sforzo sarà ripagato. Mi sento di
poter prevedere che già verso la fine del prossimo anno avremo una
ripresa, una crescita dell’economia».
Detto ciò riprese a dirigersi verso la macchina, mentre il suo
cordone di guardie gli spianava rapidamente la via e la folla dei
giornalisti tentava inutilmente di formulare altre domande.
Un’ora dopo le sue dichiarazioni erano in primo piano sui
telegiornali di tutte le TV, ripetute ad ogni edizione per tutta la
giornata e stampate a caratteri cubitali nella prima pagina di
tutti i giornali, insieme ad una istantanea della sua apparizione
all’uscita del Palazzo del Congresso e tutte le maggioranze
politiche del mondo gli facevano eco.
Persino le borse che da un pezzo chiudevano in negativo,
registrarono un significativo rialzo.
⁂
Probabilmente l’unico che non aveva letto il giornale era il
vero Philippe, che quel giorno aveva avuto una giornata tutt’altro
che gloriosa, ma nonostante ciò non era affatto pentito dello
scherzo che aveva architettato.
La vita gli si era fatta più difficile e interessante ed era
esattamente quello che voleva provare lui quando gli venne l’idea
della sostituzione, per cercare di uscire dalla noia di vivere che
lo affliggeva a morte.
Uscito dalla toilette, aveva subito preso il posto del pittore.
Nel suo taccuino il suo sosia stava lavorando ad un ritratto di una
donna, ma non c’era nessuna cliente lì in attesa. Doveva trattarsi
di una ragazza immaginaria. O forse era una sua conoscenza?
Mancavano ancora alcuni particolari del volto, ma aveva lunghi
capelli neri e lisci, riuniti in una lunga coda arricciata. Gli
occhi erano verdi, il naso morbido, le labbra grandi e sensuali,
l’intero volto era di tipo ovale e ben proporzionato.
Chi poteva essere questa donna? Aveva un qualcosa di magnetico,
che l’affascinava. L’avrebbe certamente chiesto a François quando
si sarebbero rivisti alla fine della settimana.
Stava ancora rimuginando sul ritratto incompiuto della ragazza,
quando un turista tedesco gli si presentò.
«Mi faccia un ritratto» disse in un francese un po’ tedesco e si
mise in posa autoritaria, quasi militaresca.
Philippe non aveva mai disegnato in vita sua. Forse l’aveva
fatto quand’era molto piccolo, ma non se ne ricordava e molto
probabilmente si era trattato dei soliti scarabocchi che ogni
bambino fa più per gioco e divertimento che per intento
artistico.
Tuttavia era deciso a calarsi nella parte di François. Dopotutto
lui era una persona importante mentre François chi era? Così girò
la pagina del grosso taccuino, prese la matita e cominciò a
guardare il soggetto e tirare delle linee. Erano passati 10 minuti
quando disse:
«Ho finito».
Il tedesco guardò il suo ritratto. Le proporzioni del suo volto
erano tutte sbagliate. I particolari erano malfatti e confusi e
mancava un corretto gioco di luci e ombre.
C’è da dire che come primo disegno non era poi complessivamente
tanto male, che ogni artista in fondo ha cominciato così e che un
po’ comunque gli assomigliava, ma certo non ci si aspettava da un
ritrattista professionista un’opera così grossolana.
«E lei sarebbe un pittore!» rispose il tedesco indignato per il
fatto che gli occhi erano storti proprio come i suoi. Era questo
l’unico particolare che sembrava il pittore fosse stato capace di
cogliere con esattezza e che invece avrebbe dovuto cercare di
nascondere.
«Lei non potrebbe dipingere nemmeno le pareti di
una casa!»
Philippe era divertito. Se quell’uomo avesse saputo chi era
veramente, avrebbe dovuto fingere di apprezzare il ritratto.
Raccolse le sue cose e si avviò verso casa. Quasi un’ora a
piedi, perché nel portafogli non aveva che poche monete.
In quelle scarpe dure, i piedi gli facevano male. Si sentì
stupido per avere dato tutti i soldi che aveva in tasca a François,
ma non poteva certo prevedere che questi fosse ridotto così male.
Come faceva a sopravvivere quel François, si chiese?
Probabilmente contava di vendere qualche ritratto e si sarebbe
fermato ad ogni caffé o ristorante lungo la strada di ritorno a
casa in cerca di clienti per tentare almeno di guadagnarsi la
giornata.
Non ebbe difficoltà a trovare la soffitta polverosa dove abitava
l’artista. Il monolocale era pieno di quadri e disegni e agli
angoli bisognava stare attenti a non sbattere la testa contro il
tetto che scendeva a spiovente.
Per cena trovò solo un pezzo di pane raffermo e una scatola di
fagioli. In vita sua non aveva mai mangiato del pane così duro, ma
stranamente sembrava quasi che la novità gli fosse sembrata buona.
Pensò che era dovuto alla fame, che ti fa sembrare tutto più
saporito.
Se ne andò a dormire, convinto che domani avrebbe posto fine a
quella commedia, che ora non trovava più tanto divertente come
prima.
L’unico problema era come avrebbe fatto a raggiungere la sua
residenza che era lontana, in un castello medievale nel
dipartimento di Essonne a sud di Parigi, senza avere soldi a
sufficienza per pagarsi un trasporto. Avrebbe trovato un modo.
Forse rivelando la sua vera identità, qualcuno lo avrebbe
aiutato, non foss’altro che per la ricompensa che gli avrebbe
promesso una volta arrivati. Non ci pensò più e stanco per la lunga
camminata si addormentò di un sonno profondo, senza sogni.
Lo svegliò la mattina presto una brutta scampanellata. Era la
padrona di casa, che abitava al piano di sotto.
«Come le viene in mente di bussare così a quest’ora?»
«Ma guarda, l’ho disturbato il signorino! Sono due mesi che non
mi pagate l’affitto e tra un po’ faranno tre».
«Andate via e lasciatemi dormire ancora un po’. Vedrete che
domani vi pagherò».
«Dite sempre così. Ah, ma questa situazione non durerà! Io le
darò lo sfratto, sa!»
«Che è colpa mia se per via della crisi i quadri non si
vendono?»
Visto che quella donnaccia non aveva intenzione di smettere di
litigare, detto questo Philippe la spinse fuori a forza e chiuse la
porta col chiavistello interno.
Incurante delle rimostranze della donna che continuavano sul
pianerottolo e ancora in preda del sonno, tornò a buttarsi sul
letto, mettendosi di lato, perché quel materasso tutto infossato
gli aveva fatto venire il mal di schiena.
Si svegliò un paio d’ore dopo e gli giunse all’orecchio uno
strano squittìo. Era un piccolo topolino che intravide sotto il
tavolo nel momento in cui stava aprendo gli occhi ancora
assonnati.
Evidentemente era andato a mangiarsi le briciole di quel pane
raffermo che erano cadute la sera prima. L’animaletto continuava a
guardarlo e a squittire con quei suoi occhietti neri e lucidi e il
naso a punta con i baffetti, per nulla spaventato.
Evidentemente doveva riconoscere il padrone di casa e questi non
aveva mai tentato di scacciarlo. Solo quando Philippe si levò
infilandosi quei duri scarponi, il topo si andò a nascondere dietro
le schiere di quadri appoggiati negli angoli sotto la tettoia.
Era già pronto per uscire, perché aveva dormito vestito. Con
cautela aprì la porta di casa e spiò fuori, perché non aveva
affatto voglia di litigare di nuovo con quella megera della padrona
di casa. La donnaccia non c’era, per fortuna, e si precipitò lungo
le scale trovandosi presto fuori da quella topaia polverosa.
⁂
François invece aveva trascorso bene la notte. Dopo un’ora erano
arrivati al castello medievale in Essonne e lui non poteva credere
ai suoi occhi.
Ognuno ha le sue immaginazioni riguardo a come vivono i ricchi,
i nuovi re del capitalismo che hanno sostituito quelli passati
della nobiltà, ma la realtà supera ogni fantasia.
Proprio un immenso castello medievale con tanto di fossato e
ponte d’ingresso, circondato da una immenso territorio privato con
meravigliosi giardini, un laghetto e persino una foresta con
territorio di caccia. Niente da invidiare alla residenza di un
sovrano.
Un meraviglioso atrio d’ingresso a vetri lo accolse
nell’interno; il segretario lo salutò informandolo delle
comunicazioni ricevute e lo condusse nel suo studio.
Lì François prese delle carte in mano e passò la giornata a
visitare gli ambienti, fingendo di essere immerso nello studio e
avere bisogno di ispirazione vagando per il castello.
Il salotto accanto al suo studio era tappezzato da arazzi
preziosi e armi antiche erano appese alle pareti. C’erano in bella
mostra finanche armature originali di antichi cavalieri.
La libreria era molto grande, e c’erano molti libri antichi
presumibilmente di gran valore, ma non sembrava che fosse molto
frequentata, visto che tutti i volumi erano al loro posto. Non ce
n’era nemmeno uno sui pregiati tavoli di noce stile Rinascimento
italiano e non c’era nessun bibliotecario ad occuparsi
permanentemente del locale, mentre le altre stanze erano piene di
personale.
La cucina principale era grandissima e perfettamente attrezzata.
Vi stavano lavorando una moltitudine di chef e i loro assistenti.
Nel vederlo, il capo degli chef, gli si avvicinò ossequioso,
pensando che fosse venuto lì a controllare.
«Non preoccupatevi signore, tutto sarà perfetto per il ricevimento
di stasera».
François che aveva saputo del ricevimento solo ora annuì e
disse:
«Bene».
E passò a visitare la sala da pranzo principale, che era
grandissima, di circa 500 metri quadrati. La lunga tavola che
l’attraversava era stata già perfettamente imbandita e l’ambiente,
decorato da pregevoli pitture medievali, era profumato dai numerosi
fiori che erano stati disposti al centro della tavola e nei
portafiori alle pareti.
Tra le altre cose c’era anche un centro sportivo, una grande
piscina, un teatro, una cappella e nel grande piazzale interno
l’elicottero privato parcheggiato su una regolare piazzola
d’atterraggio.
Innumerevoli erano le camere da letto, di vario stile
architettonico, la maggior parte provviste di bagno privato. Per la
prima volta nella vita François fece uso della grande vasca
idromassaggio nel suo bagno privato. Lui non se ne intendeva, ma i
rubinetti dovevano essere d’oro per quanto luccicavano. Dopo quel
trattamento, nessuno avrebbe potuto sospettare, annusandolo, che
era uno squattrinato pittore non molto pulito che viveva in una
polverosa topaia parigina.
Ad insaponarlo e poi asciugarlo e massaggiarlo con olii
profumati erano state delle inservienti, peraltro molto giovani e
carine. François le guardava in modo malizioso, ma loro tenevano lo
sguardo basso e agivano in modo puramente professionale, quindi
capì che erano abitualmente trattate solo come servitù dal
legittimo proprietario del maniero.
Si chiese allora chi avrebbe soddisfatto i desideri sessuali di
Philippe, che probabilmente dovevano essere proporzionati
all’importanza del personaggio. Non aveva una moglie, una lady o
un’amante? Perché questa non s’era ancora fatta vedere?
La risposta gli venne data durante il sontuoso ricevimento di
quella sera, che vide partecipare molti degli stessi banchieri che
avevano preso parte alla riunione insieme alle loro rispettive
consorti.
Un vero e proprio festeggiamento, un pranzo luculliano e poi
fiumi di champagne durante i balli successivi nell’ampio salone
delle feste. Alla faccia della crisi e della gente che stringeva la
cinghia, pensò tra sé François, ancora ricordandosi della sua
misera vita poche ore fa.
Erano presenti anche alcuni politici importanti, e dei cardinali
imporporati di rosso. Se non fosse che erano state invitate anche
alcune attrici e modelle, di bellezza ce ne sarebbe stata ben poca
tra gli esponenti dell’alta società. Fu proprio una di queste, una
dama che era il prototipo della bellezza francese, che attirò
l’attenzione, per non dire il desiderio di François.
«Potrei invitarla a ballare, Mademoiselle?»
La ragazza accettò senza dire niente, ma sorrise in modo
strano.
«Potrei chiedere qual’è il suo nome?»
«Dovreste conoscermi, signore. Sono la tua bambola preferita»
rispose la ragazza per nulla preoccupata della gaffe del suo
padrone.
Evidentemente l’harem del banchiere doveva essere ben fornito.
Quella notte François si dimostrò molto più focoso del suo
sosia–benefattore, che probabilmente era già abituato a quei
giochetti con più donne nello stesso letto.
⁂
Tornando alla giornata di Philippe, era appena uscito fuori in
strada quando si sentì chiamare alla spalle da una voce di donna
mielata.
«François!»
Se non fosse stato per quella voce sensuale, Philippe non si
sarebbe nemmeno voltato, non riconoscendosi più nei panni logori e
sporchi di François. Ma il destino voleva che dovesse cambiare
improvvisamente idea. Era la ragazza del ritratto, che corse
sorridente ad abbracciarlo.
Philippe si innamorò subito di lei, a prima vista, anzi meglio a
seconda, visto che già s’era innamorato del suo ritratto
incompleto.
«Come stai? Ti trovo bene! E’ passato tanto tempo. Non ti sei
dimenticata di me, vero? Sono sempre la tua piccola Lily».
La ragazza era allegra e loquace, ma Philippe era rimasto
spiazzato dall’incontro improvviso e non sapeva che rispondere,
ammaliato dalla sua bellezza. Lei, si accorse compiaciuta di quel
cambiamento, di quell’improvviso interesse per lei e gli
sorrise.
«Sono venuta qui a Parigi per te. Sai, mio padre è morto e sono
tornata al mio paese».
«Mi dispiace» riuscì a rispondere convenevolmente lui. Ma lei
non sembrava affatto triste ora.
«Non importa» disse lei. «Era vecchio e se n’è andato via
felice. Ora siamo rimaste io e mia madre, la fattoria da portare
avanti e la terra da coltivare. François… lascia stare Parigi e
vieni con me in campagna!»
In un attimo Philippe comprese che probabilmente quel François
abitava prima fuori Parigi, lei era la sua fidanzata e poi lui era
venuto qui a Parigi per cercare di fare fortuna come ritrattista,
mentre lei era rimasta là.
«Avanti, fai la tua valigia e andiamo alla stazione a prendere il
treno delle 11».
Philippe aveva un harem nel suo castello di bellissime donne di
varie nazionalità, ma quella valeva per lui mille volte di più ed
era mille volte più bella. Ora desiderava quella donna più di
qualsiasi cosa al mondo e avrebbe dato la sua intera fortuna per
averla, senza pensarci due volte. La afferrò per le braccia, la
scosse e le disse:
«Ascoltami bene. Io ti amo e sono ricco. Ti farò vivere come
una principessa. Dobbiamo andare a Essonne per potermi riprendere
ciò che è mio, ma io non ho soldi per il viaggio».
«Non ti preoccupare, ho io i soldi, ma non per andare ad
Essonne, ma per tornare a casa mia insieme» disse lei, sorridendo e
guardando il suo vestito e le pezze sui ginocchi dei pantaloni e i
gomiti della giacca. «Non m’importa se sei povero o ricco, ma
vedrai che in campagna saremo ricchi e felici in un altro
modo».
«Lily, ti prego, facciamo come dico io, poi se vuoi potremo
andare».
Ma non c’era niente da fare, la ragazza non gli credeva.
Philippe non poteva dirle di essere il sosia di François per paura
di perderla. La sua unica speranza era di farsi riconoscere dalle
guardie all’ingresso del suo castello (lasciando che Lily lo
aspettasse a distanza) e raccontare ai suoi dipendenti dello
scambio, provando la sua vera identità sulla base delle sue
conoscenze: della sua vita passata, dell’interno del castello, di
qualsiasi altra cosa che lo potesse distinguere dal suo sosia.
Se avesse trovato il modo di convincere Lily ad andare al suo
castello, avrebbe benissimo potuto ordinare alle guardie di far
andare via il suo sosia con un soddisfacente compenso in denaro,
senza che Lily si accorgesse di nulla.
Ma lei era irremovibile. Gli prese la mano e lo tirò per un
braccio.
«Andiamo» disse. «Si torna a casa, al nostro piccolo paese».
Philippe non riuscì ad opporre resistenza e la seguì senza dire
più niente. D'improvviso non gli importava più niente delle
ricchezze materiali ora che aveva scoperto la vera ricchezza
spirituale, l’amore, che prima non conosceva affatto. Da quel
momento in poi, Philippe era definitivamente diventato
François.
Durante il viaggio, mentre si tenevano per mano e si guardavano
sorridendo, un’ultima preoccupazione venne a galla dal fondo della
vita passata di Philippe e per un attimo il suo volto assunse
un’espressione preoccupata e corrucciata.
Stava pensando a cosa sarebbe successo tra sei giorni, quando
François, andando all’appuntamento a quel caffé dei Champs–Élysées
non lo avrebbe trovato. Un ragionamento logico gli corse veloce
nella mente. Certo, se nessuno aveva scoperto ieri che lui non era
lui, era improbabile che lo scambio di persona venisse mai
scoperto.
Con tutta probabilità François era felice di navigare nell’oro
e, non trovandolo, avrebbe certamente preferito continuare a fare
la parte di Philippe senza dire niente, almeno finché lui non si
fosse fatto vivo. Per scrupolo, avrebbe forse fatto controllare il
suo appartamento in modo discreto e, saputo che era scomparso, si
sarebbe sentito con la coscienza a posto nei suoi riguardi, non
potendo fare di più per tentare di rintracciarlo.
«Cosa c’è che ti preoccupa, tesoro?» gli disse la ragazza.
«Niente» rispose lui e tornò a sorriderle soddisfatto.
Tutto si vende, tranne l’amore che non si può comprare, pensò
tra sé. In un giorno era diventato un altro uomo e tutto grazie a
Lily.
Philippe aveva sostanzialmente ragione sul fatto che François
avrebbe voluto rimanere Philippe, ma la storia non sarebbe stata
proprio come immaginava lui.
⁂
François si svegliò in un principesco baldacchino con tende di
seta bianca, insieme a tre delle sue belle concubine, tra cui
quella che aveva conosciuto per prima la sera al ballo. Le donne
ancora dormivano e la sua dama preferita aveva la testa appoggiata
al suo petto.
François era inquieto. Spostò i corpi e le braccia delle amanti
facendo attenzione a non svegliarle; liberatosi di ogni contatto
con loro, riuscì a scendere dal letto e cominciò a rivestirsi.
La sua preoccupazione principale era che tra 6 giorni quella
pacchia sarebbe finita. Sì, Philippe gli aveva promesso una
ricompensa, ma cos’era una misera ricompensa in confronto ad una
vita così? Di certo la generosità di Philippe non gli avrebbe
cambiato di molto la vita. E poi s’era dimostrato già alla riunione
e anche al ricevimento la sera prima, che lui l’avrebbe saputa fare
la parte di Philippe, anzi molto meglio di Philippe stesso.
Stava finendo di abbottonarsi la camicia di pura seta morbida
fino al collo, quando si fermò fulminato da un’idea. Ma certo!
Bisognava in qualche modo liberarsi del vero Philippe prima della
fine della settimana. Se ci fosse riuscito senza testimoni, lui
sarebbe rimasto Philippe e nessuno se ne sarebbe mai accorto.
Con il suo denaro, non avrebbe avuto certo difficoltà ad
assumere un killer ma, data la sua somiglianza con la vittima,
questi avrebbe scoperto il suo gioco e comunque sarebbe stato un
testimone che avrebbe potuto ricattarlo. Non c’era altra scelta.
Avrebbe dovuto incaricarsi direttamente lui dell’omicidio.
D’ora in poi tutti i suoi sforzi sarebbero stati dedicati a
questo scopo. Se fosse riuscito, la ricompensa sarebbe stata
immensa. Doveva riuscire. Non gli si sarebbe presentata un’altra
occasione così nella vita.
Bisognava però muoversi in fretta. Philippe avrebbe potuto
stancarsi di quella vita di pezzente che conduceva, la stessa che
anche lui prima menava e che conosceva bene, e presentarsi per
porre fine allo scherzo prima del termine previsto.
François però non aveva mai ammazzato nessuno, né tantomeno
maneggiato una pistola prima d’ora. Avrebbe avuto bisogno di fare
pratica e soprattutto di procurarsi di nascosto l'arma. E poi, come
avrebbe fatto a commettere l’omicidio senza essere visto, dal
momento che ogni volta che usciva lo attendevano alla porta quelle
sue due guardie del corpo?
Il primo problema lo risolse in mattinata stessa. Il castello
aveva anche un’armeria e annessa una sala per le esercitazioni di
tiro. Disse all’istruttore che lavorava lì di volersi applicare
d’ora in poi molto seriamente alla caccia nella riserva personale
e, per maggior divertimento con le sue prede (renne, anatre,
fagiani e cinghiali selvatici), aveva bisogno di migliorare le sue
capacità di tiro.
«Sa che lei tira già molto meglio dell’altra volta? Sta migliorando
molto velocemente» disse con soddisfazione l’esperto d’armi.
Evidentemente François aveva una predisposizione per l’uso delle
armi che non sapeva d’avere, visto che era la sua prima volta.
«Beh, mirare con questi fucili a canne lunghe è facile. Dovrei
provare con un’arma a canna corta, come una pistola».
E così François fece pratica di tiro anche con la pistola contro
le sagome del poligono e scoprì che uccidere un uomo puntando al
cuore a distanza ravvicinata è piuttosto semplice. Basta mantenere
l’arma allineata e puntare un po’ più a destra del centro del
petto, correggendo la mira se l’uomo si dovesse spostare prima
dello sparo.
«Ora voglio vedere come spari tu» disse all’istruttore, che si
sentiva tutto contento di quelle confidenze, di essere trattato
come un amico a cui si dà del tu e della improvvisa passione per le
armi del suo padrone.
Mentre sparava, non si accorse che una delle tante pistole con
silenziatore era finita nella tasca del padrone, che l’avrebbe
rimessa a posto sempre con lo stesso stratagemma alla prossima
lezione, subito dopo l’omicidio.
Il guaio è che non c’era nessuna speranza di uscire da solo,
senza essere visto da quel bunker di castello; senza passare dalla
porta dove l’attendevano sempre le sue guardie del corpo, senza
rompersi l’osso del collo e senza essere veduto dalle altre guardie
disposte anche lungo il fossato.
Tuttavia si rese conto che niente di tutto questo era
necessario. Sarebbe andato con le guardie del corpo e il suo
autista la mattina molto presto direttamente a casa sua a
Montmartre. Sarebbe stato facile dire all’autista che voleva
cercare un vecchio amico pittore di particolare stile per farsi
fare un ritratto.
Avrebbe bussato alla sua porta, svegliando Philippe e dicendo
che voleva parlargli. Le guardie come al solito lo avrebbero
aspettato sul pianerottolo, mentre Philippe non sarebbe uscito così
svestito e non le avrebbe notate.
Chiusa la porta, avrebbe tirato fuori il revolver e gli avrebbe
subito sparato col silenziatore, prima ancora di iniziare a
parlare. Assicuratosi della morte dell'uomo, sarebbe rimasto un po’
per simulare una conversazione e poi sarebbe uscito, fingendo
persino di salutare l’uomo prima di richiudere la porta davanti a
sé.
Ora aveva tutta la necessaria freddezza per agire così. Anche
ammesso che le sue guardie del corpo o il suo autista leggessero il
giornale, non avrebbero certo mai avuto il coraggio di accusarlo e
perdere il lavoro. E comunque con tutti i delitti che avvengono a
Parigi ogni giorno, per i più svariati motivi, è poco probabile che
i giornali avrebbero dato grande eco all’omicidio di un oscuro
ritrattista.
Così agì il giorno dopo stesso, tranne che nessuno rispose al
campanello. Nel discendere, prima di tornare nella Limousine che lo
aspettava, notò che sul portone d’ingresso c’era un cartello «Loft
à louer» sicuro segno che Philippe doveva essere andato via già
ieri.
Forse era ancora meglio così. Si sarebbe rifatto vivo? A questo
punto non gli restava che aspettare l’appuntamento prestabilito al
caffé. Avrebbe potuto farlo fuori nel bagno sempre con la pistola a
silenziatore, in un attimo in cui non c’era nessuno; effettivamente
quel bagno era poco frequentato.
Una volta morto, lo avrebbe messo a sedere su una tazza del
water in uno degli stanzini; ci avrebbero messo del tempo per
accorgersi del delitto e sicuramente non avrebbero potuto
facilmente collegarlo a lui.
Ma nemmeno questo avvenne: all’appuntamento non c’era nessun
pittore. Più passava il tempo, più François era convinto che
Philippe non si sarebbe fatto più rivedere. E anche se fosse,
oramai lui era diventato Philippe a tutti gli effetti. Sapeva farlo
bene adesso il suo mestiere, anche meglio di lui.
Tuttavia, dopo nemmeno un anno, quel tipo di vita cominciò a
stancargli. Cominciava ad annoiarsi. La mancanza di difficoltà, di
obiettivi per cui lottare ed applicarsi lo deprimeva. Sembrava che
tutto fosse già pronto e disponibile per lui.
Da quanto era diventato Philippe non aveva più dipinto. Poteva
permettersi di comprare tutti i quadri più costosi già bell’e’
pronti e non aveva senso mettersi ore ed ore a lavorare ad un
dipinto per avere qualcosa di bello. Quando si hanno tanti soldi,
il bello si può comprare direttamente senza fatica.
In realtà, non provava più interesse per niente, nemmeno per il
bello o l’arte. Tutto gli sembrava inutile. Il mondo gli pareva
solo un’enorme macchina finanziaria. La vita stessa era inutile.
Fare soldi era inutile, ne aveva già a tonnellate, ma per mantenere
quella sua attività era necessario.
Così François cominciò a soffrire della stessa malattia del suo
predecessore Philippe. Se avesse avuto un’adorazione per il denaro,
sarebbe stato immune dalla malattia. Ma non è comune nemmeno per i
ricchi soffrire della sindrome di Zio Paperone e provare piacere
nel fare il bagno in un deposito pieno di contante.
Come pure non era facile trovare un altro sosia o ritrovare il
vero Philippe e tornare ad essere François. Con la scusa di voler
ritrovare il pittore definendolo un suo vecchio amico, aveva
incaricato i migliori investigatori di Parigi, ma senza
risultato.
Con tutti quei soldi non poteva nemmeno comprarsi la solitudine.
Le guardie del corpo lo seguivano ovunque quando usciva, perché una
volta un fanatico no–global e comunista aveva tentato di
assassinarlo.
In preda alla depressione, una sera François si tagliò le vene e
il giorno dopo fu ritrovato morto dissanguato nella sua camera.
⁂
Philippe invece aveva sposato Lily e si occupava della fattoria.
Nel molto tempo libero che aveva durante l’inverno, si applicò
all’arte del disegno, quasi per gioco, pensando che gli avrebbe
permesso ancora di più di fare la parte di François.
E’ incredibile quali furono i suoi progressi nel giro di pochi
mesi. Dopo un anno era diventato bravo come François; una volta
sicuro della sua mano, volle applicarsi a finire il ritratto di
Lily, con un risultato che fece stupire la stessa Lily.
Lo stesso giorno della morte di François, Philippe stava
seminando nell’orto della fattoria. Un vecchio professore in
pensione, che abitava in una casa vicina, come ogni giorno passò
per la strada che attraversava la sua terra, col giornale
sottobraccio.
«Buongiorno François!»
«Buongiorno professore!»
«Che fa oggi?»
«Semino, tra un po’ la famiglia crescerà»
«Ah, che bella notizia! Auguri allora!»
«Grazie. Perché non si siede qui al fresco a leggere il suo
giornale» disse indicandogli una delle panchine sistemate ai lati
del giardino, sotto folti alberi di mele.
Intanto Philippe continuava a lavorare nell’orto. Il professore
aprì il giornale e lesse la notizia in prima pagina.
«Ha sentito? Il famoso banchiere Philippe Reinisch, uno degli
uomini più ricchi del mondo, si è suicidato nel suo castello
nell’Essonne».
Philippe, che era piegato a lavorare sul terreno, trasalì e si
rizzò di scatto. Quel suicida doveva essere lui! Il professore notò
la strana reazione del contadino, ma non poteva certo immaginarne
la causa.
«Allora, non dice niente?»
«Mio caro professore, purtroppo non esiste più l’uguaglianza
naturale tra gli uomini e nemmeno una mezza misura d’uguaglianza.
Il capitalismo non pone limiti alla ricchezza o alla povertà».
«Ora il dramma dei poveri è che vogliono diventare
ricchi. Il dramma dei ricchi è che vogliono diventare poveri. Per
fortuna o sfortuna, solo pochi ci riescono». E continuò a rivangare
la terra.
Cusì ’a terra mi doni pane
cu’ fasuli, trucchiscu e vajane
pummadori, mpisiddi e favi:
’na minestra ogni ghjurnu l’avi.
A li soldi ’un ce stavo a spiranza
picchì i quiddi a nissuno l’avanza
e pirciò nuddu li vo’ caccià.
pirò ’a terrà te faci abbuttà!
L’abbondanza (o "La moltiplicazione")
Così è la terra che mi dà il pane
con fagioli, mais e taccole
pomodori, piselli e fave:
una minestra ce l’ho ogni giorno.
Ad avere i soldi non ci spero
perché questi non avanzano a nessuno
e per questo nessuno li vuole cacciare.
Ma la terra ti fa abbuffare!
Lo studente
intraprendente
Racconto erotico
(privo di volgarità)
Marco ha 20 anni, non è bello ma pur sempre giovane, è
squattrinato e studia ingegneria all’università. I suoi compagni di
scuola che hanno scelto lettere nella stessa università, fanno
sesso regolarmente ma lui, nonostante abbia una voglia che lo
divora, deve studiare duramente e non ha molto tempo libero per
cercarsi una ragazza e mantenere una relazione.
A questo s’aggiunge il fatto che nel suo corso ci sono
pochissime ragazze; quelle che ci sono di solito sono già fidanzate
con i suoi compagni di corso, che le controllano a vista.
Le ragazze libere si contano sulla punta delle dita e sono
alquanto bruttine: come tutte le cose nella vita, resta solo quello
che gli altri non vogliono. Il meglio se lo pappano subito, non fai
nemmeno in tempo a vederlo.
Sembra che l’ingegneria attiri solo le ragazze brutte, per cui
non vale la pena di impegnarsi, oppure che le poche ragazze che ci
sono l’abbiano scelta per fare compagnia ai loro fidanzati che
avevano già prima di entrare all’università.
Del resto conquistare una ragazza, che sia bella o brutta,
comporta più o meno sempre la stessa fatica. Questa situazione
ingiusta lo infastidisce.
Tuttavia Marco è un ragazzo molto intelligente e riesce sempre
ad ottenere quello che vuole. Così si è inventato uno stratagemma
per copulare gratis e senza fatica, senza dover fare la corte ad
una ragazza o impegnarsi in un fidanzamento. A queste condizioni
Marco è disposto ad andare con ragazze sia belle sia brutte, purché
si tratti di ragazze giovani, di più o meno la sua età.
Tra una lezione e l’altra, la mattina prima che comincino le
lezioni o prima di andare a mensa o di tornare a casa, Marco fa il
giro delle aule non solo ad ingegneria, ma anche in tutte le
facoltà preferite dal gentil sesso: lettere e filosofia, medicina,
scienze politiche, economia, etc.
Se è di passaggio non disdegna di dare un’occhiata in qualsiasi
aula, indipendentemente dalla facoltà. Infatti è frequente che
quelle poche ragazze che frequentano le materie scientifiche più
dure siano le più disponibili e vogliose, per il fatto che anche le
loro voglie sono state represse dalla durezza degli studi. Potrebbe
ben darsi che gli capiti qualcuna il cui fidanzato è lontano e lei
non sia tanto male, e magari si è annoiata del partner e sia
disposta a tradirlo.
Se Marco capita in un momento in cui si sta tenendo la lezione,
gli interessa comunque dare un’occhiata, per vedere quante ragazze
ci sono e dove di solito usano sedersi, mandando giù tutte queste
informazioni nella sua eccezionale memoria, ad uso di quando
ritornerà nella stessa aula durante l’intervallo.
Ha studiato tutti gli orari delle lezioni e programma un
percorso, per poter essere di passaggio durante la pausa tra una
lezione e l’altra, oppure prima dell’inizio della prima lezione
della giornata. Per velocizzare i suoi rapidi spostamenti da
un’aula all’altra Marco non va mai a piedi: si muove sempre in
bicicletta, anche quando piove.
Durante la pausa tra una lezione e l’altra o prima dell’inizio
della lezione, quando gli occupanti dei posti sono fuori in piedi a
prendere una boccata d’aria, sorseggiare una bibita al bar vicino,
fumare una sigaretta o semplicemente a chiacchierare da un’altra
parte dell’aula, nessuno fa caso a quello studente come tanti, che
con aria indolente e rassegnata si trascina camminando goffamente
di lato tra le strette file di banchi, con lo sguardo basso,
attento ad ogni particolare degli oggetti che sono stati lasciati
sopra e sotto il banco o sullo schienale dei sedili
ribaltabili.
Per Marco ormai è diventato facile capire se quel posto è
occupato da una ragazza, anche se il quaderno è chiuso. Copertine,
sciarpe, guanti, cappelli, borse, borsellini, matite, accendini…
tutto porta il segno inequivocabile della femminilità.
Quindi si siede nel posto accanto e apre il quadernone degli
appunti lasciato sul tavolo dalla sua vittima prescelta, pronto per
l’imminente lezione o usato per registrare quella precedente. Ormai
non si sbaglia più e a confermarglielo è sempre la palese scrittura
di donna che si presenta ai suoi occhi, sicura conferma che quel
posto è occupato da una ragazza.
Apre una pagina a caso tra quelle già scritte e in uno spazio
bianco, con una comune penna biro dello stesso colore del testo
scrive il suo laconico messaggio: il suo numero di cellulare
seguito da una frase sempre diversa che inventa subito sul
momento.
«Se ti va di fare l’amore», «quando vuoi un uomo»,
«un ragazzo sempre disponibile per te», «se ti senti sola», «quando
hai bisogno d’affetto», «per alleviare lo stress dello studio», etc
etc.
Qualsiasi frase, che faccia capire quello che vuole o alluda al
suo scopo senza possibilità di fraintendimento e che possa
stimolare la fantasia delle donne, spesso con ironia, senza essere
troppo esplicita o volgare fa bene al caso suo. La sua è una
calligrafia precisa e sicura, fredda ed essenziale. Sembra quasi
stampata a macchina.
E’ fin troppo facile. Specialmente per le materie letterarie, il
messaggio viene scoperto di solito solo durante le ripetizioni
prima degli esami, quando tutti gli appunti del corso vengono
riletti, in un momento di stress per l’esame imminente, spesso
proprio all’ultimo momento: la notte del giorno prima degli
esami.
E’ proprio quello che Marco vuole. Così la maggior parte delle
chiamate avvengono di sera e a fine di ogni trimestre, un periodo
di grande impegno sessuale per Marco. Per sua fortuna, lui non è il
tipo che si riduce a studiare all’ultimo momento prima degli esami;
comunque non sarebbe possibile riuscirci ad ingegneria.
Per le materie scientifiche invece, è più probabile che il
messaggio venga scoperto prima, per il fatto che, per capire bene
la lezione corrente a volte bisogna dare una ripassata a quelle
precedenti, perché nella scienza tutti i concetti e le verità sono
strettamente collegati tra loro.
Come stasera. Il suo cellulare squilla per tre volte, numero
sconosciuto e chiamata anonima.
«Pronto? Chi parla? Chi è? Pronto?»
Marco ripete più volte ma senza fretta o disappunto sempre gli
stessi generici saluti telefonici, per poter confermare alla
ragazza che si tratta di un uomo, senza rivelare niente di sé,
nemmeno il suo nome, mantenendola nel mistero e così evitando di
imbastire qualsiasi conversazione al telefono. Vuole che lei lo
consideri un estraneo, qualcuno che parla poco, che non sa nemmeno
il suo nome e non è interessato a chiederlo.
Con la sua voce cavernosa e profonda, sa di eccitare la
curiosità e le fantasie erotiche della ragazza che è dall’altra
parte del filo. Solo un attimo di pausa e la risposta arriva
puntuale, sempre dello stesso genere.
Non presentazioni o domande, mai insulti o arrabbiature, niente
incertezze, nemmeno un «d'accordo» esplicito, ma solo indicazioni
di dove andare e come fare per entrare discretamente, a conferma
che la ragazza ci sta.
«Vieni tra mezz’ora alla Casa dello studente,
appartamento 16, blocco B. Dai un leggero colpetto tre volte alla
terza finestra sul lato sinistro della porta d’entrata, poi aspetta
di fronte la porta senza bussare. Quando nessuna delle mie compagne
d’appartamento è in giro verrò io ad aprirti». Detto questo la
ragazza riattacca senza altre parole, senza nemmeno un saluto.
Marco è molto metodico e preciso, ricorda perfettamente tutte le
indicazioni datogli a memoria, senza bisogno di scrivere niente e
non ha mai sbagliato. Non gli è mai successo che la ragazza non
l’ha aperto o non si è presentata. Se chiamano, dopo aver sentito
quella sua profonda voce virile, poi non ci ripensano più.
Riesce sempre ad entrare senza essere visto. A volte lo fanno
entrare dalla porta, a volte dalla finestra. In certi casi gli
danno perfino appuntamento nel boschetto appena fuori il blocco
residenziale, probabilmente in questo caso sono tutte ragazze che
convivono con il loro fidanzato.
Questa volta lo venne ad aprire una ragazza con i capelli a
caschetto neri e fare svelto, molto carina e con un fisico ben
proporzionato. Marco entrò, chiuse la porta alle sue spalle da
dietro, col braccio e senza voltarsi, mentre lei indietreggiava.
Lui restò di fronte a lei guardandola in modo cinico e distaccato.
Lei ricambiò con uno sguardo misto di stupore e curiosità, ma solo
per un attimo. Era nervosa e si guardava intorno sospettosa.
Tutte le porte delle camere delle sue compagne di stanza erano
chiuse e bisognava approfittare del momento. Qualcuna poteva uscire
all’improvviso per prepararsi una tazza di caffé in cucina o per
andare al bagno e sorprendere lei con il ragazzo sconosciuto se si
attardava ancora con lui nel corridoio.
Così gli afferrò subito la mano e lo trascinò verso la porta
della sua stanza. Marco non fece alcuna resistenza, anzi la seguì
con la sua stessa rapidità di passi felpati e falcati. La ragazza
chiuse la porta a chiave, facendo attenzione a spostare lentamente
il chiavistello mezzo arrugginito per non fare troppo rumore.
Intanto Marco era dietro di lei e ammirava impassibile il suo
bel sederino, messo ancora più in evidenza dalla gonna corta e
stretta e dal leggero piegarsi della ragazza mentre armeggiava con
la serratura. Lei si voltò.
«Non dobbiamo fare rumore» gli sussurrò
intimandolo. «Queste pareti sono di cartone».
Nemmeno gli sorrise. La sua maschera esteriore ostentava
freddezza e cinismo, proprio come quella di Marco. Andò vicino al
letto nell’angolo della stanza adiacente alla porta e cominciò
meccanicamente a spogliarsi, voltandogli le spalle.
La stanza era debolmente illuminata. La sola luce era quella di
una lampada sulla scrivania. Mentre la ragazza si toglieva
rapidamente prima le scarpe, poi il maglione e la gonna,
riponendole in modo ordinato nell’armadio vicino e rimanendo in
collant, reggiseno e mutandine, Marco nemmeno la guardò o si
avvicinò, come se ciò non lo eccitasse e non lo interessasse
affatto.
Piuttosto andò alla scrivania, spinto da una irrefrenabile
curiosità e guardò gli appunti dei quaderni aperti sotto la luce
della lampada.
Non vide la pagina dove aveva scritto il suo annuncio. Nella
mezz’ora che era passata dal momento della chiamata la ragazza
aveva probabilmente continuato a studiare. Il quadernone era ora
aperto su una pagina successiva, che parlava approfonditamente
dell’equazione di Bernoulli. Quindi stavolta era una studentessa di
fisica o ingegneria, pensò Marco.
Così lui si interessò delle formule e della puntuale
dimostrazione matematica, mentre lei intanto si era tolta anche
reggiseno e mutandine e si era voltata verso di lui, rimanendo
inizialmente stupita per averlo trovato lì impalato presso la
scrivania, con lo sguardo basso assorto nella lettura.
Marco in realtà si era accorto, con la coda dell’occhio, che la
ragazza si era voltata, ma rimase apposta con lo sguardo chino
sulle carte, e proprio per questo lei ora lo stava guardando
stizzita. Alla fine il suo orgoglio di donna non ne poté più.
Si accasciò nuda sul letto rivolta verso di lui, con il braccio
destro steso lungo i fianchi e le cosce, quello sinistro piegato
col gomito sul cuscino, l’ascella aperta e la mano che sosteneva
più in alto la testa, mettendo ben in evidenza i seni sodi e
carnosi; quindi gli interruppe l'ostica lettura di
fisica–matematica.
«Non sarai mica venuto qui per studiare questa roba anche tu…»
lo stuzzicò improvvisamente.
Marco si spogliò, mentre lei lo guardava maliziosamente. Poi si
stese su di lei e cominciò a baciarla, ma lei tenne la bocca chiusa
e tirata e lo allontanò subito dal suo viso. Gli mormorò:
«Non perdere tempo in preliminari. Penetrami in
modo meccanico e regolare, senza interruzioni prima davanti e poi
di dietro». Lui era visibilmente deluso, ma obbedì, non potendo
fare diversamente.
Mezz’ora dopo Marco era appena uscito dalla finestra bassa, che
si era richiusa subito dietro di lui e, senza voltarsi,
visibilmente sudato, affrontò la notta buia e fredda.
Si stava riordinando con la mano i capelli tutti scompigliati e
riassettando la camicia all’interno dei pantaloni.
Avrebbe voluto chiederle come si chiamava, anche solo il nome, e
se avrebbero potuto vedersi un’altra volta; ma finito l’amplesso,
la ragazza gli intimò di andarsene e rivestirsi in fretta, perché
doveva continuare a studiare e non voleva che eventuali rumori e
parole fossero udite dalle sue compagne d’appartamento invidiose e
impiccione.
La camicia gli stava un po’ storta, probabilmente nel buio e per
la fretta aveva mancato di abbottonato male un occhiello.
Mentre s’avviava presso il viale d’ingresso, il suo cellulare
nella tasca posteriore iniziò di nuovo, inaspettatamente, a
vibrare. Attese 3 squilli e rispose con la sua solita voce
profonda, impassibile e tranquilla.
«Pronto, chi è? Chi parla?»
Dopo una breve pausa, ancora:
«Pronto?»
«Sei tu quello del messaggio?» rispose improvvisamente una voce
allegra e quasi ancora infantile, probabilmente quella di una
matricola.
«Sì» replicò laconicamente il rassegnato Marco.
«Vieni al più presto possibile all’appartamento 3, blocco A
delle case dello studente…»
Sotto il grande albero
vedo il mondo lontano.
La vita non ha più tempo
il mondo non ha più senso
Vedo uomini illusi
vedo sogni delusi
Vedo gioia e dolore
vedo amore e rancore
Sotto il vecchio albero
vedo gente distratta
dal denaro, dal potere
dalle cose e dall’avere
Vedo vita passare
vedo amore ignorare
Vedo lusso e ricchezza
vedo guerre e scarsezza
Ma poi…
Sotto il saggio albero
vedo il mondo cambiare
la speranza tornare
dopo l’era del capitale
Vedo natura selvaggia
non più cemento che s’avanza.
Vedo uomini uguali
nessuno più elemosinare
Ma poi…
D’improvviso mi sono svegliato
non so più quanto abbia sognato
Sotto speranza di un’utopia
se n’è trascorsa la vita mia
Il campo arato
Favola ecologica
C’era una volta uno stormo di uccellini che viveva sugli alberi
di una grande tenuta a bassa quota nella Calabria. Per la vicinanza
del mare, qui l’inverno era mite e gli uccellini riuscivano a
sopravvivere senza dover emigrare. Sugli alberi di ulivo non
raccolti né potati dall'uomo, avevano fatto i loro nidi di rametti
intrecciati.
Ci Cip era l’uccellino più vecchio e il capo dello stormo. Nella
sua lunga esperienza aveva conosciuto i pericoli che, dal momento
che i grandi uccelli carnivori come i falchi e le aquile stanno
diventando sempre più rari, si trovano soprattutto a terra quando
si atterra in cerca di cibo.
Essendone uscito miracolosamente salvo, ora istruiva i più
giovani a stare all’erta e a non fidarsi mai degli altri animali
più grandi: i gatti, i cani, la volpe, i serpenti e soprattutto il
più furbo e pericoloso di tutti: l’uomo.
Era una tranquilla giornata di tarda primavera. L’estate era
vicina e l’erba adulta nell’uliveto era già secca. Visto dall’alto,
il campo sembrava un’impenetrabile barriera dorata, da cui
spuntavano le forme contorte degli alberi d’ulivo, che terminavano
con le loro chiome verde scuro, chiazzate di piccoli fiori
biancastri, in netto contrasto col giallo intenso delle piante
erbacee.
Nel folto dell’erba secca si nascondeva il cibo ma, diceva Ci
Cip:
«Bisogna stare molto attenti quando ci si avventura
là dentro, perché il piatto è ricco quanto il rischio è elevato. I
temibili serpenti sono sempre in agguato nell’erba e si muovono di
soppiatto, con quella loro spaventosa testa piatta. Con la sottile
lingua biforcuta sentono l’odore delle prede e scattano di
colpo».
«Il povero uccellino impacciato dall’erba potrebbe
non riuscire ad accorgersi del pericolo e fare in tempo a librarsi
in volo, rimanendo così schiacciato dalla potente morsa di quella
bocca e dagli aguzzi denti veleniferi».
Così Ci Cip istruiva i giovani uccelletti inesperti, che lo
ascoltavano ansiosi e stupiti, come se stesse raccontando di
incredibili avventure e mostri terribili. Ma niente c’era di
fantasia nelle parole del vecchio e saggio volatile, perché quella
era la realtà della natura e Ci Cip non raccontava favole: per
quanto fosse piacevole ascoltare i suoi racconti, in realtà erano
delle lezioni di vita, e la sua era a tutti gli effetti una scuola,
che insegnava ai nuovi adulti a sopravvivere.
Avrebbe ora dovuto parlare dei gatti che si arrampicano sugli
alberi e minacciano i nidi con le uova o i piccoli quando,
improvvisamente, si sentì un rombo e un continuo scoppiettìo,
proveniente dalla strada e sempre più vicino a loro.
Un mostro più grande di tutti, anche di un uomo e persino di un
innocuo cavallo, faceva sempre più rumore e stava per entrare nel
campo, fumacchiando da una specie di dritto e sottile tronco
verticale una puzza soffocante, peggio delle esalazioni del legno
bruciato. Avanzava roteando i suoi grossi piedi neri circolari e la
sua dura fronte era a scaglie orizzontali.
Per rendere la cosa ancora più temibile, sulla sua groppa sedeva
un uomo, l’essere più infame della terra, che catturava gli
uccellini e li rinchiudeva in gabbia, beandosi della loro ingiusta
prigionia, divertito dalla loro sofferenza e dalle grida di
soccorso che invano lanciavano verso i compagni liberi.
Ci Cip, che mai aveva visto una cosa del genere, cinguettò la
ritirata generale. Tutti gli uccellini, seguendo il vecchio capo
stormo, dagli alberi d’ulivo si librarono in volo e andarono a
rifugiarsi sui rami più alti delle querce al confine.
Là erano abbastanza alti, sicché il mostro, che evidentemente
pesava tanto e non poteva volare, non avrebbe potuto raggiungerli,
ma non troppo lontani da non poter soddisfare la loro curiosità
circa le intenzioni di quel goffo mastodonte.
E in special modo era Ci Cip che voleva sapere qual’era lo scopo
di tutto quel baccano. Quello che osservò stavolta lasciò lui
stesso stupito: il mostro improvvisamente rallentò, abbassò le sue
chele sulla terra – un rullo di luccicanti ruote dentate – e quando
riprese a muoversi, il rumore si fece ancora più assordante.
E non solo il rumore… quelle ruote roteanti sembravano scavare
nella terra come milioni di aguzzi becchi. Frammentavano gli steli
e la paglia secca già schiacciata dalle possenti ruote e facevano
schizzare la terra per aria, mentre lo spietato animale percorreva
un’irregolare spirale lungo il confine della terra e poi verso
l’interno.
Niente lo poteva fermare, persino le pietre spostava
rumorosamente. L’unico ostacolo al suo inesorabile incedere erano i
grossi tronchi degli alberi, che lui evitava accuratamente
girandogli intorno.
E dov’era passato, l’oro della distesa di paglia s’era
trasformato nel colore di quella terra rossa. D’improvviso s’alzò
il vento, ma il mostro continuò deciso la sua opera di distruzione
senza preoccuparsene. Ora dietro di sé lasciava un’alta scia
polverosa. Parte della fertile terra di superficie se ne volava
via, per fortuna non nella direzione in cui erano appollaiati tutti
gli attoniti spettatori pennuti, altrimenti sarebbero stati
imbrattati di terra e avrebbero avuto anche difficoltà a
respirare.
Ci Cip aveva capito che a capo di tutto questo c’era l’uomo.
Sempre lui era responsabile delle più grandi devastazioni:
appiccava incendi, tagliava alberi, uccideva gli uccelli con una
canna infernale, che sputava fuoco e pietre a distanza, e ora stava
addirittura seviziando la terra!
E senza apparente motivo. Forse il motivo c’era, ma per Ci Cip
era inesplicabile. All’inizio aveva creduto che quel mostro
mangiasse l’erba secca e anche la paglia, macinandola con quegli
strani denti della sua orribilmente scarna e ossuta bocca
posteriore. Ma che lui sapesse, nessun animale mangia la paglia;
poi non c'è un animale che pesta l’erba sotto i piedi e la sporca
con la terra prima di mangiarla. Qual’era allora lo scopo di quel
cerbero infernale? Boh, tutto rimaneva un mistero, anche per Ci
Cip.
Certo è che i più acerrimi nemici degli uccellini, i serpenti,
non sarebbero sopravvissuti. Forse che il mostro mangiava serpenti?
Questa sembrava una spiegazione plausibile, ma era troppo lontano
per poterla verificare e nemmeno lui, il coraggioso Ci Cip, avrebbe
mai osato avvicinarsi a quel mastodonte di cui non gli era chiara
la natura. E aveva tutte le sue buone ragioni per sospettare il
pericolo.
Quando tutta la terra fu ridotta in polvere, Ci Cip cominciò a
pensare che forse il mostro mangiava le talpe, quei grossi topi che
scavano gallerie appena sotto la superficie del terreno, con le
loro tozze e forti zampe unghiate, simili a mani umane, e che
mangiano tutti gli insetti, vermi e lombrichi che trovano lungo il
percorso del loro tunnel.
Sapeva infatti che nella natura il piccolo mangia il
piccolissimo ed è a sua volta mangiato dal più grande e
quest’ultimo dal più grosso. Questa è la legge della natura, una
legge che potrebbe sembrare cruda e spietata, ma che consente a
tutti gli animali di sopravvivere.
Mai prima d’ora Ci Cip aveva visto un animale che, per mangiare,
distruggeva metri e metri quadri di terra senza lasciare manco un
filo d’erba. D'accordo, rivoltava la terra per scovare le sue
prede, ma poi perché non le inseguiva e continuava a macinare terra
finché non aveva lavorato tutto il campo?
Mistero… che s’infittì ancora di più nel mentre che il bestione
stava andandosene. Era uscito dalla terra e aveva imboccato quella
piatta e dura striscia grigia su cui passavano spesso delle specie
di grandi chiocciole scintillanti con grandi occhi su tutti i lati
e uomini dentro che guardano fuori.
Di queste chiocciole, in realtà molto più veloci delle lumache,
Ci Cip pure non sapeva cosa mangiassero e quale fosse il loro
scopo, anche se da tempo ci avevano fatto l’abitudine a vederle.
Aveva supposto che mangiassero gli uomini interi, appunto quelli
che v’erano dentro, e che nell’attesa di digerirli, se ne andassero
a spasso lungo quei loro sentieri, anche perché molti degli uomini
che vedeva nelle loro fauci attraverso i grandi occhi sembravano
inquieti e sicuramente non avevano affatto una faccia allegra.
Ma una specie di grande chiocciola, meno veloce, che andava sia
sui sentieri grigi, sia sulla terra, quand’era sulla terra la
rivoltava e polverizzava, e per di più con un uomo sopra e non
dentro gli occhi, dei quali aveva solo le due paia piccole sul
davanti, luminose di notte, era proprio un enigma ancora più
strano.
Ma ora se n’era andata, non si sentiva più nemmeno il suo
grugnire ed era improbabile che sarebbe tornata e comunque il
rumore li avrebbe avvertiti. Quindi Ci Cip prese la decisione di
tornare ai loro nidi sui folti ulivi abbandonati, che per fortuna
non avevano subìto alcun danno.
Tutta l’erba era scomparsa e la terra sotto di loro ora era
soffice come sabbia. Adesso qualsiasi predatore sarebbe stato in
vista, quindi era sicuro scendere per andare a dare
un’occhiata.
Ci Cip comandò di andare tutti in terra a frugare. Fu una
mangiata memorabile: trovarono tante sementi, che prima erano in
profondità, e anche molti di quei vermetti, quelli piccoli di cui
si cibano gli uccelletti come loro, che evidentemente erano passati
indenni tra i grandi denti del mostro. Ma il banchetto non durò che
un giorno.
Il giorno dopo non c’era più niente da mangiare. Le uova degli
insetti che erano rimaste nel terreno, o erano state fatte
precipitare troppo in profondità nel rivoltamento della terra
oppure, mancando l’ombrosità prodotta dall’erba, per mancanza di
umidità, non si schiudevano. Pertanto non nascevano nuovi vermi per
compensare l’ammanco di quelli che erano stati mangiati.
Dopo tre giorni gli uccellini furono costretti a migrare in un
altro campo per trovare da mangiare, mentre in quello arato
tornavano solo per dormire, non potendo spostare i loro nidi perché
troppo pesanti.
Nè andò meglio a tutti gli altri animali: i serpenti che erano
nel campo erano riusciti quasi tutti a fuggire prima di essere
stritolati da quei mortali artigli roteanti ma al ritorno, non
essendoci più la copertura dell’erba, non avrebbero più potuto
nascondersi per cacciare gli uccellini e altri piccoli topi o
lucertole.
La talpa dal canto suo aveva ora una terra morbida, come se
fosse sabbiosa, ma non poteva scavare le gallerie perché gli
sarebbero franate addosso soffocandola. Dei vermi più grossi, le
prede di cui prevalentemente si cibava, ne erano rimasti pochi, in
parte uccisi dagli artigli metallici del mostro, in parte esposti
alla vista dei corvi e altri uccelli più grandi, che pertanto li
avevano velocemente depredati.
Basta interrompere un anello della grande catena alimentare
affinché si spezzino tutti gli altri. Ora era rimasta solo la terra
nuda, arsa dal sole e impoverita delle sue sostante nutritive.
Questo era il concetto di ordine e pulizia dell’uomo: il nulla, la
morte.
E così, per più di un mese, il terreno attorno agli alberi
rimase una distesa polverosa e poverissima di vita, sia vegetale
sia animale. Ma poi improvvisamente qualcosa cambiò. Grandi nuvole,
spinte dal vento vennero dal nord. L’umidità prosciugata dal sole
ritornava alla terra, per effetto dell’energia del sole stesso.
Venne un forte acquazzone, che inzuppò per bene la terra arida di
Ci Cip e del suo stormo.
Già il giorno dopo, semi di piante rimasti sotto la superficie e
altre minuscole sementi portate dal vento approfittarono di quel
terreno fresco e molle per spuntare e mettere rapidamente radici.
Nel giro di poche settimane l’erba era di nuovo alta e verde.
L’ecosistema dei piccoli animali e la complessa "catena" o
"piramide alimentare" si stava lentamente ricostruendo, anello per
anello, strato per strato, e lo stormo di Ci Cip poté tornare a
vivere definitivamente nel suo territorio.
Del mostro che aveva impoverito la terra era rimasto solo un
lontano ricordo nella mente degli spensierati uccelletti che ora,
vivendo alla giornata, si godevano la disponibilità di cibo in un
autunno mite appena iniziato, senza nemmeno pensare
all’inverno.
L’unico che ci pensava era il saggio Ci Cip. E pensava anche al
mistero del grosso animale sevizia–terra. Per quanto si sforzasse
non riusciva a trovare il bandolo della matassa, la ragion d’essere
di quel mostro.
Non sapeva Ci Cip che per la prima volta dopo tanti anni, per
tema degl’incendi, quella grande tenuta dove lui e gli altri
uccellini abitavano, era stata lavorata in modo che la terra non si
potesse incendiare.
Infatti, dall’altra parte del paese, un automobilista aveva
gettato una sigaretta accesa al lato della strada e tutto un grande
terreno confinante con la strada e i suoi alberi erano andati a
fuoco. Il fuoco si era poi diffuso sui terreni coltivati
circostanti e i vigili del fuoco avevano fatto fatica a
domarlo.
Il proprietario del terreno incolto era stato chiamato ai danni
dai vicini. Sapendo di quel disastro, anche il proprietario del
terreno incolto di Ci Cip aveva voluto farlo lavorare per
cautelarsi contro l’eventualità di incendio.
La tecnologia dell’uomo serve più che altro a risolvere i
problemi che l’uomo stesso crea. L’autocombustione è un fenomeno
rarissimo. Occorre una scarica elettrica, un fulmine, che colpisca
un albero secco ma di solito, quando ci sono i fulmini piove anche,
ed è raro che dove il fulmine cada si possa creare un focolaio
d’incendio che poi si diffonda a tutta una foresta.
Ma tutto questo Ci Cip non poteva saperlo. Se l’avesse saputo,
l’avrebbe certamente capito e ciò avrebbe confermato la sua
intuizione che dietro tutti i mali c’era sempre un solo e unico
responsabile: l’uomo.
Intelligente com’era avrebbe detto: non sarebbe bastato tagliare
semplicemente l’erba al confine per evitare la propagazione degli
incendi, senza rovinare l’ecosistema della nostra terra? Della sua
tecnologia spesso l’uomo abusa e fa più danni che utile.
Ma per ora Ci Cip e il suo stormo dovevano pensare ad affrontare
l’inverno. Già i campi coltivati dalla natura (quelli che gli
uomini ingiustamente chiamavano "incolti") rimasti a loro
disposizione per sopravvivere scarseggiavano sempre più.
Se poi anche il male dell’uomo li avesse colpiti direttamente,
che l’avessero capito o no, sarebbero comunque rimasti impotenti di
fronte ad esso. Potevano solo sperare che le disgrazie portate
dall’uomo non fossero almeno definitive.
Non vogliono cambiare
la natura non sanno più amare
(x2) Che cosa ci vuoi fare…
non resta che sperare…
Il fico bambino
Favola metaforica
C’era una volta un piccolo fico che era nato vicino un
fiumiciattolo, nel mite clima del Mediterraneo, da una minuscola
semente che aveva portato l’acqua o forse gli uccelli.
Lì l’acqua non gli mancava e soprattutto d’estate, quando per il
caldo e la scarsità di piogge quasi tutta la terra era secca e
dura, il fico, causa la vicinanza del corso d’acqua, godeva di un
terreno morbido e fresco e anche ricco di sostanze nutritive, che
l’acqua stessa portava giù nel suo lungo cammino dalle sommità dei
monti e tra le rocce sotterranee, ricche di minerali.
Ma i campi vicini erano coltivati e ogni anno, a primavera
inoltrata, venivano i contadini a distruggere tutte le piante nate
vicino la preziosa risorsa idrica, per ripulire il letto del
torrentello dalle piante acquatiche e far venire più acqua, che poi
deviavano verso le loro piantagioni.
Ma distruggendo le piante acquatiche che con le loro radici
trattenevano l’acqua corrente alla superficie, i contadini spesso
ottenevano l’effetto opposto a quello voluto e più acqua di prima
si perdeva in profondità nel letto del fiume.
Anche il fico, con le sue belle foglie verde scuro e i suoi
flessibili rami argentei veniva ogn’anno brutalmente straziato e
ridotto alle dimensioni di una piantina, non più in grado di
elevarsi nemmeno sopra le erbacce più vili. Una capra o qualsiasi
altro animale erbivoro non avrebbe mai fatto un danno così
grave.
Così, di anno in anno, il povero fico riusciva a malapena a far
crescere le sue radici, prima che la mano dell’uomo gli tagliasse
improvvisamente busto e gambe. Dopo quel terribile macello si
sentiva quasi morto, ma non del tutto.
Il suo attaccamento alla vita, il suo istinto e anche il suo
orgoglio gli imponevano di non seccare, di non lasciarsi morire e
non darla per vinta ai suoi aguzzini e così lentamente faceva
rispuntare qualche piccola foglia per continuare a vegetare.
Solamente gli dispiaceva che mai poté dare quei frutti copiosi e
deliziosi che avrebbe prodotto, se solo fosse stato lasciato
crescere liberamente. Ma egli era impotente di fronte alla falce
mortale che tutto distrugge lungo il suo cammino e, per quanto si
sforzasse, non comprendeva nemmeno la necessità e le ragioni di
tanta violenza.
Tant’è vero che i suoi frutti avrebbero dato un facile
nutrimento a tanti animali e anche all’uomo stesso. Perché allora
l’uomo non li voleva e non voleva che lui crescesse e si
sviluppasse secondo natura?
Così passarono gli anni e quel fico bambino, che avrebbe dovuto
diventare ormai un grande albero adulto, era invece rimasto
piccolino, ma solo apparentemente, perché sotto sotto aveva una
radice quasi profonda come quella di un vero albero, costruita
lentamente anno dopo anno, tra mille difficoltà, nonostante le
potature forzate.
Ma un anno qualcosa improvvisamente cambiò. Nessuno venne più a
falciare la vegetazione sul bordo del ruscello. I contadini avevano
abbandonato in massa le campagne per andare a vivere nelle città a
lavorare per i capitalisti e così i loro figli, nati lì e abituati
alla vita borghese, non sarebbero più tornati a coltivare quelle
terre, che furono lasciate a sé stesse.
Quell’anno il fico, dotato di radici profonde in quel terreno
oltremodo fertile, ebbe finalmente una crescita a dir poco
miracolosa. Egli gettò lunghi rami in tutte le direzioni e grandi
foglie per catturare quanta più possibile luce del sole,
imponendosi su tutte le altre piante vicine, che prima, dopo le
brutali potature, lo sovrastavano, ma ora dovevano accontentarsi
soltanto della sua ombra.
Per due volte all’anno, a fine primavera ed autunno, egli era
carico di tanti frutti, di grande succosità e dolcezza, che
spuntavano da quel legno fibroso, apparentemente così inutile e dal
punto di vista dell’uomo buono a nulla, nemmeno a far fuoco.
Aveva così tanti frutti che la maggior parte seccavano e poi
cadevano a terra. Qui alcuni erano mangiati da cani, topi e altri
animali affamati di passaggio, altri marcivano dopo le piogge e
facevano spuntare nuove piantine sotto l’albero, che l’avrebbero
sostituito quando poi sarebbe morto.
Con questa caduta di frutti, il grande fico riportava alla
superficie le sostanze nutritive che estraeva dalla profondità del
sottosuolo, garantendo così la fertilità degli strati più alti
della terra vicino a sé, in un ciclo continuo.
Frutti… proprio quei frutti che gli uomini non avevano voluto e
che nemmeno oggi volevano, dal momento che non veniva nessun uomo a
coglierne.
Se non gli uomini, ne approfittavano gli uccelli, soprattutto i
corvi, che col becco appuntito si cibavano della dolce polpa e poi
col loro guano ne spargevano le sementi anche a grande
distanza.
Sicché tanti alberi figli ebbe il nostro fico bambino diventato
ormai, nel giro di pochi anni, un albero grosso e robusto.
Ora che non era più un alberetto pensava che, anche se fossero
tornati gli uomini, avrebbero dovuto faticare per distruggere quel
suo tronco così grosso e duro e per fare a pezzi i suoi nodosi
rami. E comunque sarebbe stato quasi impossibile estirpare le sue
profonde radici.
Ma non sapeva il fico di quali mezzi si poteva oggigiorno
servire l’uomo per distruggere la natura. Non passarono dieci anni
che quelle terre divennero edificabili. Lì sarebbe avvenuto lo
"sviluppo", secondo i canoni dell’uomo e la natura non faceva parte
dei suoi piani.
Arrivarono ruspe e camion e uomini armati di ruggenti motosega
tagliarono dal basso tutti gli alberi. Scavarono fondamenta,
costruirono case di cemento e strade di catrame e asfalto.
Il piccolo fiume venne deviato presso la sorgente e incanalato
in grossi tubi di plastica, il fico tagliato e su quella terra
grassa venne steso uno spesso strato di cemento, per bloccare luce
e aria come in una nera tomba, sicché per secoli niente più vi
avrebbe potuto crescere.
Questa fu la prematura e triste morte del "fico bambino".
Lungo il sentiero della mia vita
lungo il percorso di questa ferita
ho visto un mondo di false parole
senza più amore solo dolore
Lungo la strada ch’ho attraversato
nelle città che ho visitato
ho visto uomini intenti al lavoro
eppur non resta niente di loro
La produzione, i capitali…
un mondo ingiusto, senza ideali
una natura straziata e sfinita
la povertà non è mai finita
Tanto ho sognato un mondo migliore
senza il denaro e il suo bagliore
ma poi alla fine mi sono svegliato:
l’uomo è cattivo e non è cambiato
La società del capitale
non ha capito cosa è morale
che in questo mondo val solo l’amore
che l’uomo è labile e dopo muore
Anche se il mondo non ho cambiato
è la mia vita ch’ho migliorato:
ora io vedo cosa ha valore
ma cerco ancora invano l’amore
Don Ninì
Racconto breve
Antonino Gallo, detto Ninì, era un giovane disoccupato di uno
spopolato paese del nord della Calabria, nato alla fine degli anni
’70.
E pure alla fine del miracolo economico italiano del dopoguerra,
che comunque aveva solo minimamente toccato il Meridione d’Italia:
il sud del paese infatti era ed è rimasto ancora povero di
infrastrutture.
Qualche imprenditore c’era stato, per lo più disonesto. Le
fabbriche erano state aperte per sfruttare i finanziamenti statali
ed europei e poi subito fatte fallire e chiudere. In questi posti
il capitalismo non ha mai funzionato, è sempre degenerato nel
malaffare, nella corruzione e nella collusione mafiosa.
Era il 2000 e Ninì aveva poco più di 20 anni, un diploma di
perito a pieni voti ma nessun lavoro e nessuna prospettiva concreta
di lavoro.
I suoi amici e coetanei erano quasi tutti emigrati: chi nel nord
Italia, chi a Roma, chi a Milano, chi altrove. A studiare (quelli
che potevano permetterselo) o a lavorare. Qualcuno anche a fare
entrambe le cose: lavorare e studiare, mantenendosi da solo.
Nel paese erano rimasti quasi solo vecchi, la natalità era bassa
e molte case vuote. Quei pochi giovani che ancora c’erano erano
"bamboccioni" e vivevano con mamma e papà senza fare nient'altro
oltre che mangiare e dormire.
Ma la famiglia di Ninì era piuttosto povera. Le uniche
prospettive concrete erano quelle di un’agricoltura di sussistenza
o la manovalanza nella ’ndrangheta, la mafia calabrese, che
comunque non era nemmeno presente nel suo piccolo e povero paese,
ma solo nella più popolosa provincia.
Ninì era il più grande di tre fratelli, tutti maschi, figli di
contadini che ora percepivano solo una misera pensione. I suoi
genitori non volevano che lui continuasse questo mestiere.
«E’ un lavoro brutto, a sudare sotto il sole. I figli miei non
devono fare questo» diceva suo padre, un vecchio iscurito e rugoso,
con le mani nodose e incallite dall’uso degli attrezzi agricoli.
Ma un futuro migliore qui non era possibile senza avere delle
conoscenze. Quei pochi che conoscevano un politico o un
raccomandatario che lo conosceva, avrebbero potuto ottenere uno
degli altrettanti pochi posti pubblici comunali, di solito una
sinecura, in cambio di favori personali od elettorali, uniti spesso
anche a cospicue tangenti pagate dal lavoratore.
Alcuni posti pubblici addirittura si vendevano al migliore
offerente e questo era l’unico modo di entrare senza
raccomandazione, ma in questo caso bisognava avere una grossa
disponibilità di denaro.
Ninì però aveva uno spirito orgoglioso e non avrebbe mai
accettato compromessi di tal genere. La sola idea di ottenere
qualcosa non per merito, ma per raccomandazione, lo ripugnava e si
sarebbe schifato di sé stesso anche se, oltre alla raccomandazione,
il merito l’avesse avuto davvero, perché la prima era comunque la
sola e unica cosa necessaria, mentre il secondo non era proprio
considerato.
Com’era forte di braccia e muscoloso di petto, così era anche il
suo senso della giustizia. Ma tutto questo è solo un ragionamento
ipotetico perché Ninì la raccomandazione per restare al suo
paesello non ce l’aveva proprio. E così non gli restava che
emigrare. I genitori, dal canto loro, lo incoraggiavano in questo
senso. Non lo volevano più in casa così, nullafacente.
E allora fece la sua valigia, prese l’autobus e partì senza dire
niente a nessuno. Né i suoi genitori se ne allarmarono, contenti
che finalmente aveva preso la determinazione e si sarebbe messo a
lavorare.
Ma Ninì odiava profondamente lo Stato Italiano e non avrebbe
contribuito ad alimentare il divario tra Nord e Sud, rimanendo in
Italia e andando a lavorare al Nord. Difatti a Roma aveva un
biglietto di un volo economico per Londra.
Londra: uno spaventoso fungo di città, enorme quasi da sembrare
un mondo a sé. La capitale dell’alta finanza, del lavoro, dei
servizi. Una delle città più popolose d’Europa, seconda solamente a
quel formicaio che è Parigi, ma con una densità di abitanti ben
superiore di quest’ultima.
Qua sì che il capitalismo aveva funzionato. Funzionato eccome!
Solo il 5 o 6% di giovani disoccupati, contro il 65% della Calabria
(di quei pochi che non erano emigrati).
Arrivato dall’aeroporto nel centro di Londra Ninì cominciò a
girare per vedere se poteva trovare qualche lavoro nei numerosi
ristoranti italiani della City, magari con vitto e alloggio, anche
solo una sistemazione di fortuna per la notte, perché soldi in
tasca ne aveva ben pochi.
Ma gli anni d’oro dell’emigrazione erano da tempo finiti. Ad un
giovane ragazzo seppur intelligente, ma con limitata conoscenza
dell’inglese, erano destinati i lavori più umili: sguattero,
cameriere, uomo delle pulizie, facchino, etc. Ed anche questi erano
difficili da trovare perché erano in tanti a cercarli.
Seguendo una mappa imboccò una strada che avrebbe dovuto
portarlo all’ennesimo dei locali italiani che voleva visitare, dove
sperava non fossero già al completo di personale, quando in una via
laterale vide una tabella stradale a forma di freccia con su
scritto "Find love", affissa sullo stesso palo di altre insegne,
recanti nomi di vie e indicazioni di attività commerciali.
Rimase come incantato su quelle parole… sapeva che letteralmente
significavano "trova l’amore", ma si sforzava invano di capirne il
significato reale, quando la sua trance fu interrotta da una
melliflua voce di donna.
Sbatté le palpebre per cercare di mettere a fuoco nei suoi occhi
appannati dalla precedente fissità quella invitante figura. Ella
proveniva giusto dalla direzione della freccia e subitaneamente si
delineò di fronte a lui: era una donna di mezz’età ma ancora
attraente, di carnagione scura e con soffici capelli neri.
In palese ritardo, il suo cervello ora elaborò le parole di lei,
che aveva sentito poc'anzi, assorbendole passivamente, senza farci
caso: "hey, you handsome" (ehi, tu… carino). Così in un istante gli
fu svelato il significato della strana insegna. Costernato pensò:
«peccato che non ho soldi» e il pensiero gli uscì di bocca quasi
senza volerlo, nel suo inglese maccheronico, privo ancora della
giusta sintassi:
«I… no money»
Stranamente la ragazza invece di piantarlo indispettita come lui
si sarebbe aspettato, gli sorrise e gli disse:
«Are you looking for a job?» ma vedendo che lui
rimaneva incantato a guardarla e non rispondeva, disse
semplicemente:
«Work?, labour?» Lui stavolta comprese e disse:
«Yes».
La ragazza dovette ricorrere al linguaggio universale dei gesti
per fargli capire che era stata picchiata di notte e che aveva
bisogno di qualcuno che la difendesse.
Londra, non diversamente da tutte le grandi città, è spietata e
se ti aggrediscono nessuno dei passanti interviene a difenderti,
tantomeno se sei una prostituta, perché esistono ancora i
benpensanti che non ti vedono di buon occhio e al pari di una
qualsiasi altra ragazza.
Che fortuna, quindi, ad aver trovato quel tipo ingenuo ma
robusto e con le sopracciglia unite e quell’aria fiera e
forestiera, che gli pareva un ottimo deterrente contro teppisti e
approfittatori!
Senza dargli nemmeno il tempo di rispondere, lo trascinò fino a
casa sua, un minuscolo loft in quello che doveva essere
evidentemente un intero palazzo adibito a casa di tolleranza, dove
depositarono la valigia.
«Are you hungry?» «Hungry?» disse la ragazza agitando la mano verso
la sua bella bocca aperta. Ninì aveva una fame da lupo e disse di
nuovo:
«Yes, yes!». E lei subito si mise a preparargli da
mangiare con quello che aveva in casa.
Appena pronto, lui mangiò rapidamente. E poi, mentre lei stava
lavando i piatti, le si avvicinò abbracciandola da dietro e
cominciò a baciarla sulle guance e sul collo. Mentre era occupata,
lei lo lasciava fare, ma nel mentre la sua mano gli scivolava
dentro il vestito, avendo ora finito di lavare i piatti, lei
improvvisamente si girò allontanandolo.
«No, this isn’t your job». Non è questo il tuo lavoro.
Prese la borsetta, si rifece rapidamente il trucco e lo trascinò
per mano fuori di casa, per andare a battere nella zona di Soho, il
quartiere a luci rosse di Londra.
Il suo «job» era di starsene segretamente in disparte, seguirla
e intervenire solo se qualcuno dei clienti o passanti le avesse
dato fastidio.
Quella sera non capitò niente, ma la sera successiva, Tracy,
così era il nome della ragazza, ebbe la sua soddisfazione. Quei due
teppisti che l’avevano picchiata e derubata l’altra volta si
presentarono di nuovo, ma stavolta se ne scapparano col naso rotto
e a gambe levate.
Ninì ne aveva afferrato uno per le spalle e, rigiratolo, gli
menò un deciso cazzotto in faccia. Poi rincorse l’altro che
scappava con la borsetta della ragazza e lo scaraventò a terra,
afferrandolo per il colletto e cominciando a menargli pugni sul
viso.
Nella furia dell’impari lotta quasi l’avrebbe ammazzato, se
Tracy non fosse intervenuta a separarlo recuperando la borsetta,
che tra l’altro conteneva solo pochi spicci perché prima d'ogni
prestazione, da quando c’era Ninì, Tracy si faceva pagare in
anticipo e dava subito i soldi a lui, che li custodiva nella tasca
interna della giacca.
Quei due assalitori, che con tutta probabilità erano anche
drogati, non si sarebbero visti in giro per un bel po’ e certamente
non avrebbero provato un’altra volta ad aggredire Tracy.
A proposito, il premio di Ninì per quella sera fu che, tornati a
casa, lei finalmente acconsentì a fare l’amore con lui. Dopo che
l’ebbero fatto Tracy si addormentò subito, invece Ninì rimase
sveglio e alla luce della lampada del comodino aprì un libro di
grammatica.
L’inglese gliel’insegnava Tracy giorno per giorno e in più
studiava anche da solo, così la sua conoscenza della nuova lingua,
nel giro di poco più di un mese, crebbe a tal punto che a sentirlo
parlare sarebbe stato difficile classificarlo come un «wop» cioè un
«guappo», il termine spregiativo con cui spesso venivano chiamati
gli italiani e specialmente quelli del suo mestiere.
La voce che Tracy aveva un protettore si sparse presto
nell’intero quartiere di Soho.
«Sì, è un bel fusto con un pugno di ferro. Ma se quelli hanno il
coltello…» disse una sua collega, invidiosa del nuovo acquisto.
E così Tracy fece comprare a Ninì il coltello dallo spacciatore
di armi clandestino di Soho.
«Adesso il mio Ninì ha il coltello e dio sa come lo sa
maneggiare bene… Se qualcuno prova a darmi fastidio, si becca una
bella coltellata nel fegato»
«Sì, ma se quelli hanno la pistola cosa potrà fare il tuo Ninì
con il suo coltello?»
E così Tracy fece armare Ninì anche di regolare pistola, anzi
irregolare, perché comprata sempre dallo stesso spacciatore d’armi
clandestino di Soho.
Il fatto è che ora nessuno più osava aggredire Tracy, ma molte
altre invece, del tutto prive di protettore, non potevano dirsi
affatto così sicure.
Così Ninì aveva importato l’antico mestiere a Londra. Non
passarono che pochi mesi ed era diventato un grossista della sua
professione e ora si faceva chiamare «Don» Ninì. Gli inglesi
avevano qualche difficoltà a porre l’accento sull’ultima vocale e
pronunciavano il suo nome come una specie di "donnìni", in ridicola
assonanza con «donnine» che appunto erano l'oggetto del suo
business.
E difatti Don Ninì ora proteggeva praticamente tutte le
instancabili «donnine» lavoratrici del sesso di Soho; per aiutarlo
in questa sua attività aveva mandato a chiamare e subito assunto
sotto le sue dipendenze i suoi due fratelli e certi suoi cugini di
primo e secondo grado, perché si fidava solo del suo stesso sangue.
Difatti questi erano i suoi fedelissimi e non l’avrebbero mai
tradito nemmeno in patria, figuriamoci in terra straniera.
Da che era arrivato con la giacchetta con le pezze, Don Ninì
dopo pochi anni possedeva già parecchi appartamenti, ville, yacht e
auto di lusso.
La sua attività spaziava dalle battone di strada per il popolino
alle prostitute di alto bordo per clienti ricchi e illustri e
questi ultimi lo avevano introdotto anche nel jet–set dei
capitalisti e banchieri londinesi dove, nonostante si sapesse quale
fosse il genere della sua attività merceologica, la sua ricchezza
non dava adito a nessun commento o discriminazione e ancor meno la
sua fama di essere un duro e spietato «mafioso».
La sua piccola ma efficiente organizzazione gestiva pure un
cospicuo traffico di ragazze dell’est europeo che venivano a
lavorare nelle sue case di appuntamento londinesi. Non aveva avuto
concorrenti finora. Né cert’altri che invece gestivano un altro
traffico, che pure scorreva a fiumi, quello della droga, avevano
messo il naso negli affari di Don Ninì, né lui intendeva
avventurarsi in altre attività oltre a quella dello sfruttamento
della prostituzione. Anzi, se una prostituta era trovata in
possesso di droga o si drogava, Don Ninì disponeva subito che fosse
allontanata.
Don Ninì era diventato un’icona. Quello che la gente leggeva sui
giornali a proposito della mafia in Italia lo associava
romanticamente a lui, che era a tutti gli effetti considerato un
vero «mafioso». E quasi ne andavano orgogliosi, gli inglesi, di
averne uno anche a Londra, seppur relativamente innocuo, vista la
natura ben poco violenta delle sue attività.
A proposito di violenza, da quando c'era Don Ninì gli ordinari
episodi di aggressione e rapina nel quartiere di Soho erano
fortemente diminuiti. La costante presenza notturna degli uomini
del boss della prostituzione funzionava da deterrente anche per gli
altri generi di reati che non coinvolgevano affatto le
prostitute.
Scotland Yard era ben conscia di questo fatto e l’ispettore capo
in carica nel quartiere preferiva pertanto chiudere un occhio sulle
attività di Don Ninì. Così gli uomini di Don Ninì e i poliziotti si
salutavano rispettosamente a vicenda, caso mai si incontravano
durante le loro rispettive ronde.
Nemmeno durante il picco della grande recessione, nel 2009,
l’attività di Don Ninì subì perdite o rallentamenti. Come
l’industria alimentare e le pompe funebri, il suo commercio non
conosceva mai crisi, solo un leggero abbassamento delle tariffe,
regolate in base alla deflazione.
Tutto questo sarebbe durato chissà quanto se non fosse stato per
un piccolo incidente. Una delle ragazze che lavoravano per Don
Ninì, una giovane russa che era stata appena avviata al mestiere,
decise di cambiare idea.
Normalmente l’avrebbero lasciata andare, perché tutte le altre
ragazze ultimamente acquistate erano ben disposte, ma lei non
avrebbe mai immaginato che i suoi sfruttatori potessero essere così
buoni e preferì seguire il suo istinto, che le disse di
fuggire.
La cosa non era mai capitata finora e Don Ninì era preoccupato
che la ragazza potesse denunciarli alla polizia. Perciò, non appena
scoperta la fuga, sguinzagliò subito i suoi uomini alla ricerca
della renitente–penitente.
Questi andavano dappertutto, conoscevano tutti ed erano da tutti
temuti e rispettati e non ci volle molto che per delazione
scovarono dove si era nascosta la ragazza, che fu subito portata al
cospetto del boss. Era legata e imbavagliata e spaventata come un
coniglio nel sacco.
«Dove credevi di andare?» la redarguì Don Ninì.
«I miei uomini conoscono palmo per palmo la zona e
nessuno ti avrebbe mai aiutato a fuggire perché nessuno può
mettersi contro Don Ninì. Avevi per caso intenzione di andare alla
polizia? Meglio che non ci provi. Io conosco i migliori avvocati
d’Inghilterra e dopo un giorno sarei fuori, ma tu non ne usciresti
viva».
Infatti ufficialmente Don Ninì faceva il collezionista e
rivenditore d’arte e quest’attività non era in effetti solamente
una copertura, perché, al contrario di molti nuovi ricchi, il gusto
per le cose belle ce l’aveva davvero e aveva investito molti dei
suoi soldi in oggetti d’arte di gran valore e bellezza.
Comunque la ragazza non poteva rispondere perché era
imbavagliata, ma anche se non lo fosse stata, per il terrore non
avrebbe aperto bocca. E difatti non parlò nemmeno quando il boss le
strappò il bavaglio. Continuava a guardarlo terrorizzata.
Lui capì che così facendo non ne avrebbe cavato una parola di
bocca, mentre voleva sapere le ragioni della fuga per decidere che
cosa fare della ragazza.
Allora assunse un’aria più rilassata e si andò a sedere dietro
la sua scrivania stile antico di mogano e pelle, appoggiando i
gomiti sul tavolo e incrociando le mani come per mettersi a
pensare.
La sua, più che una predica rivolta alla ragazza, sembrava una
giustificazione per sé e il suo operato:
«Io sono un benefattore di voi altre. Vi ho salvato
dalla povertà. Vi offro un lavoro discreto e ben retribuito e
nessuno vi fa del male. Dovreste ringraziarmi e invece…»
Si alzò, afferrò con forza la sedia e andò a mettersi seduto di
fronte alla ragazza che era ancora terrorizzata. Si piegò in avanti
e cominciò a slegargli i piedi e poi le mani. E intanto andava
dicendo:
«In questa città vivono qualche milione di uomini.
Soli. E qualche milione di donne. Pure sole. Com’è possibile che
siano soli, non sono affari miei. Forse hanno troppo da fare per
conoscersi… Io offro un servizio per gli uomini soli per fargli
conoscere donne compiacenti che li facciano sentire meno soli, e
non mi faccio altre domande. C’è qualcosa di immorale in tutto
questo? Se c’è, non certo in quello che faccio io».
La ragazza ora era libera, ma non si mosse. Il boss le stava di
fronte e lei poteva sentire il forte respiro di lui alitarle sulla
faccia. E lui incalzava:
«Cosa credi, che gli altri capitalisti siano meglio
di me? Anche loro sfruttano i dipendenti per arricchirsi con i
frutti del loro lavoro. Profitto faccio io e profitto fanno loro.
Anzi voi almeno sapete quanto trattengo dai vostri guadagni e
potete giudicare se la cifra è giusta per la protezione che vi
offro. Se la mia attività è immorale, allora tutto il lavoro
dipendente è immorale».
La ragazza adesso era meno terrorizzata e anzi parzialmente
stupita. Non s’era aspettata che Don Ninì, il «mafioso» avesse
questo punto di vista, di disprezzo dell’intera società
capitalista.
Gli vennero allora in mente le parole di sua madre, che una
volta le aveva detto che il comunismo era buono, che era meglio il
comunismo.
Prima col comunismo tutti lavoravano, ognuno a seconda delle sue
capacità e lo Stato aveva l’obiettivo di provvedere ai bisogni di
tutti. Ma con la Perestroika le cose erano andate sempre peggio.
Era arrivato il caos e mentre alcuni si arricchivano, i più caddero
in uno stato di povertà che nemmeno i loro padri e nonni avevano
conosciuto.
Molti i giovani sbandati e senza lavoro, dopo tanto studio,
mentre prima il comunismo era in grado di qualificare e
riqualificare anche i lavoratori più umili. E non solo, con il
capitalismo erano arrivati tutti i vizi dell’occidente: gioco
d’azzardo, prostituzione e droga. Tanta droga. Quella sì.
«Quindi cosa vuoi? Vuoi metterti in proprio? Una
volta c’erano i lavori artigiani ed ognuno lavorava in proprio. Il
mio paese, l’Italia, era rinomata per questo. Se è così bastava
dirlo… Va, sei libera…»
Ma la ragazza non si mosse ancora. Era rimasta impietrita e
stupita. Lui se ne accorse e disse, addolcendo per la prima volta
la voce:
«Pensi ancora che io non lo possa capire? Non vuoi
dirmi perché sei scappata?»
Lo sguardo gelido e fisso del boss, con i suoi occhi castani,
quei capelli neri senza nemmeno un filo di bianco e il forte tratto
di quelle sopracciglie unite, era fisso in quegli occhi azzurri,
quasi si perdeva come un punto nel mare.
Mare che improvvisamente si agitò. Infatti la ragazza scoppiò
improvvisamente a piangere, chinando la testa e coprendosi il volto
con le mani.
Così, senza che lei avesse mai parlato, il boss comprese il
motivo della fuga della ragazza, l’unica che non aveva accettato di
fare mercimonio della sua bellezza.
Ora si ricordava di un particolare che prima d’ora non riusciva
a spiegarsi e che gli avevano riferito i suoi scagnozzi: la ragazza
non aveva ritirato i soldi della paga settimanale prima di tentare
la fuga. Il motivo era che evidentemente disprezzava il denaro
guadagnato facendo di sé e della sua bellezza merce per
chiunque.
La tirò su dalla sedia e le disse di non piangere. Ora guardava
la ragazza con occhi diversi, non più gelidi, a riprova che non la
considerava più come un oggetto, come una merce da vendere.
Si soffermò sui particolari della bellezza di quel viso: i
lunghi capelli d’un naturale biondo–paglierino cadevano a lunghe
ciocche in una diseguale armonia sul lato destro del volto ben
disegnato; una fronte leggermente ampia, gli zigomi stretti e la
linea della mandibola affusolata formavano un perfetto viso ovale.
Le labbra erano sottili e la bocca piccola. Il naso così ben
proporzionato da dare una sensazione di morbido.
Il boss strinse la ragazza a sé, poi allargò la stretta
guardandola fissa negli occhi e le disse, in tono sommesso:
«Conosco il mondo. Una volta ero povero anch’io.
Poi sono diventato ricco, almeno secondo il metro di ricchezza di
questa società, e finora non mi ero nemmeno accorto della mia vera
povertà. Hai ragione tu. La bellezza delle donne non si può
vendere. E’ solo di chi le ama. E l’amore non si può comprare». Non
disse più niente e i due si baciarono a lungo.
Sulla scomparsa di Don Ninì si fecero varie ipotesi
nell’ambiente della capitale britannica ma nessuna giusta. La
maggior parte delle interpretazioni parlavano di delitto o
suicidio, dal momento che niente era stato prelevato dal cospicuo
conto a nome del boss alla Lloyds Bank.
Scotland Yard aveva scandagliato un buon tratto del Tamigi alla
ricerca del corpo, senz’altro risultato se non quello di trovare
alcuni bidoni di sostanze radioattive illegalmente abbandonati in
un punto profondo, probabilmente da qualche imbarcazione di
passaggio.
Dopo due anni, Londra, assorta nel suo frenetico tran–tran
quotidiano, s’era completamente dimenticata del boss calabrese e di
lui rimaneva solo un breve dossier nei polverosi schedari dei
crimini e casi di scomparsa irrisolti di Scotland Yard.
Certo è che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che Ninì e
Tatiana, perché questo era il nome della giovane ragazza, vivevano
felici in una bella baita di legno sulle pianure a ridosso dei
rilievi del Caucaso. Avevano già due bei bambini, una fattoria con
le galline, le capre e un fertile campo coltivato a grano e mais. E
l'amore. Ma soprattutto… la libertà!